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Nuove poesie di Antonietta

E pasctur

Quand l’asctâ la volta e galun
pasctur, peurpara capott e basctun
peurchè anch preu sct’ann, t’ha fnî la cucagna,
l’è giünta l’ura eud lasciar la muntagna.

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7 - Il professor Umberto Monti


IL PROFESSOR  MONTI

Sul prof. Umberto Monti, nativo di Cervarolo, insigne studioso di Letteratura italiana, responsabile della Biblioteca dell'Università di Genova, forbito oratore, valente poeta e scrittore, ci sarebbe da scrivere un intero volume.
I  suoi articoli, le sue conferenze, le sue numerosissime monografie di vario soggetto e, in special modo, la limpida purezza della sua originale poesia ci rivelano che il nostro personaggio è stato un autentico artista ed uno dei più eletti seguaci della Scuola Pascoliana.
Ma il grande amore per i suoi luoghi d'origine dette forza ed espressività a numerosi scritti, volti a rendere più cara e più nota la nostra montagna. Egli ha cantato i luoghi più significativi del nostro appennino: il Dolo e l'Ozola, Villa Minozzo, il suo "villaggio" Cervarolo, "Civago ai piedi dell'Alpe e del diruto Ravino", la Torre dell'Amorotto e poi S. Pellegrino in Alpe, La Sagra delle Forbici, II Cusna, Bismantova, Canossa, Selva Piana, Carpinetì, Toano, il Monte Ventasse, Ospedaletto, Ligonchio, Piolo e ancora una lunghissima teoria d'argomenti e soggetti da riempire pagine e pagine.
II continuo interessamento del Prof. Monti per i problemi dell'Appennino reggiano e gli sforzi da lui fatti per avviarne la soluzione gli hanno meritato, a buon diritto, l'appellativo di "Pioniere dell'Appennino Reggiano".
E se oggi tutti i Comuni della più elevata fascia appenninica, in particolare quello estesissimo di Villa Minozzo, sono allacciati dalla strada carrozzabile, se l'arteria delle Forbici è finalmente giunta a Civago, nel punto estremo dell'Alta Valle del Dolo, pensiamo che una parte non piccola di merito vada anche ad Umberto Monti che per decenni lottò, scrisse, parlò, visitò le più remote borgate, difese con coraggio le soluzioni caldeggiate anche davanti agli scettici ed ai denigratori.
La stessa Sagra del Passo delle Forbici, iniziata nel lontano 1924 e continuata per molti anni (nel 1933 alla Sagra fu associata la commemorazione del Pascoli e la stessa sorella del Poeta, Mariù, fu più volte presente alla manifestazione), in fondo non era che un mezzo per interessare l'opinione pubblica alla necessità dell'apertura di una rotabile tra la Valle del Dolo e la Garfagnana.
A proposito della "Strada delle Forbici", il Monti scrisse questo struggente sonetto che inserì nella raccolta "ULTIMO APPRODO" (1957).

L' ADDIO DI UN POETA

Agli amici

"Quando non sarò più, non mi cercate
in quelle poche pagine che scrissi,
dove riconoscente benedissi
le creature buone che ho incontrate.

Cercatemi in Civago e in Cervarolo
lungo la strada che sognai bambino,
sopra le rocce del sonante Dolo.

E là mi troverete, pellegrino
senza bordone, col mio sogno solo:
in quella strada è tutto il mio destino"

LA SAGRA DELLE FORBICI

A partire dalla prima domenica d'agosto del 1924, le popolazioni del nostro appennino Tosco-Emiliano iniziarono a salire sul Passo delle Forbici per invocare dalla Regina delle Alpi, che aveva in quei paraggi, nel lontano medioevo, Chiesa ed Ospizio, la benedizione sopra le loro terre, le loro case, il loro bestiame, le loro fatiche.
Verso la fine degli anni'30 - erano appena trascorsi 16 anni - la leggenda inizia a spuntare, a diffondersi, a compiacersi di dare all'evento una remota antichità. Toccò al prof. Monti ascoltare, presso il Casone di Profecchia, da un vecchio garfagnino, l'origine di quella Sagra.
Sul Passo delle Forbici, diceva costui ad un gruppo di persone che lo ascoltavano interessati, si radunavano, sin dai tempi più antichi, i pastori dell'uno e dell'altro versante. Lassù intrecciavano danze, si scambiavano doni e preparavano le nozze dei loro figlioli. Oggi quel rito è diventato cristiano e le popolazioni vi salgono per onorare la Madonna.
Se fatti così ravvicinati venivano in tal modo travisati e trasformati, com'è possibile - si chiedeva incredulo il nostro Monti - conoscere la verità su avvenimenti di molto più antichi? Non è semplice dare una risposta a questo interrogativo. Forse si era spinti a tanto dal bisogno di proiettare in un lontano passato l'esistenza di queste cerimonie per contornarle di poesia e di mistero.

Fissiamo, comunque, alcune date significative di questa manifestazione:
24.8. 1924 - rimo Convegno con Messa all'aperto. Scopo della manifestazione l'apertura (anzi il ripristino) della strada delle Forbici che resta ancora oggi un pio desiderio.
29.8.1926 - naugurazione della Cappella e della modesta rotabile che collega il Casone di Profecchia con l'Abetina Reale.
3.8.1933 - naugurazione del quadro rappresentante nostra signora delle Alpi, dipinto dalla pittrice lucchese Anita Martini, che seguì in tutto e per tutto la descrizione lasciata da Giovanni Pascoli. Data, quindi, l'origine pascoliana del quadro, si pensò di associare il nome del poeta a questa Sagra Alpestre. Gli oratori che si avvicendarono nelle diverse cerimonie furono:

- il Prof. Gabriele  Briganti nel 1933;
- il Prof. Cesare  Biondi nel 1934;
- il Prof. Arrigo  Fugazzanel 1935;
- il Prof. Giuseppe Lipparini nel 1936.


Dall'anno 1933 sale a questa Sagra di umili pastori la sorella del Poeta: Mariù Pascoli, la quale smise di farlo solo quando venne a mancare.
Nel 1936 si aggiunse un nuovo rito che accrebbe il valore simbolico e suggestivo della festa per aderire ad un voto del poeta. Egli aveva sempre auspicato che dinnanzi alla sua Madonna ardesse una lampada formata da un reggicoppa in ferro battuto, sostenuto da una triplice catena che porta iscritta intorno alla fascia il verso pascoliano: "io sono una lampada che arde soave".
Durante la Seconda Guerra Mondiale gli incontri pascoliani al Passo delle Forbici si interruppero. Negli anni '50 la Sagra fu ripristinata per qualche anno, finché, agli inizi degli anni '60, si mise inspiegabilmente fine a dette celebrazioni. Alle genti di Civago e di Castiglione di Garfagnana chiediamo: non ritenete che sarebbe moralmente urgente dare nuova vita - in modo continuativo - alla Sagra delle Forbici?
Essa era la Sagra più alta che si celebrasse in Italia con tanto concorso di popolo, tra le due maggiori vette dell'appennino settentrionale: il Cimone ed il Cusna, dinnanzi allo scenario delle Apuane a ponente, separate dalla profonda valle del Serchio, in un paesaggio superbo. 

6 - Civago Leggenda tradizione poesia

CIVAGO NELLA LEGGENDA - NELLA TRADIZIONE - NELLA POESIA

CURIOSE STORIE DI CIVAGO

Premessa

Anche se scarso di storie importanti - e come può averne un paese formatosi nel secolo sedicesimo per iniziativa di un piccolo stuolo di pastori - Civago ha avuto ugualmente le sue piccole storie e le sue leggende. Si tratta di eventi, alcuni realmente accaduti, altri volutamente ingigantiti dalla fantasia popolare per rendere più intriganti ed avvincenti le serate trascorse "a veglia" dai Civaghini nelle lunghe notti invernali.
Strani accadimenti, tramandati per via orale da padre in figlio, pervenuti sino a noi grazie alla curiosità, alla sagacia e alla limpida penna di un noto studioso della storia del nostro appennino: il Prof. Umberto Monti di Cervarolo.
Le tradizioni popolari costituiscono il patrimonio più prezioso per una Comunità che cerca sempre nuovi stimoli per rinnovarsi e per mantenersi viva e vitale nel tempo.
Sono particolarmente lieto di poter affidare alle pagine che seguono il racconto di alcune di queste storie, certo di risvegliare, in quei Civaghini che vorranno dedicare un po' del loro tempo alla lettura di queste brevi note, la consapevolezza di essere anch'essi gli eredi degli antichi abitanti dell'appennino reggiano. Quei "Lombardi" dalla barba d'oro che guadagnavano le rampe e si spingevano sui culmini per scendere poi nella terre della Toscana a trovar il lavoro che veniva loro negato dalla stagione imperversante e dall'asperità dei luoghi.
Emergono più dal cuore che dalla memoria i bellissimi versi del Pascoli che avrebbero dovuto figurare incisi (decisione poi disattesa) in una lapide posta sotto l'orologio della Torre Campanaria della Chiesa di Civago:
"Lombardo prendi su la scure "da Civago e da Carù "è tempo di passar le alture "tieni'asu, tient'asu, tient'asu.
Ma ecco le storie.

La leggenda  dei lupi

In un freddo inverno di circa 2 secoli e mezzo or sono, si ebbe in Civago una invasione di lupi. Questi animali sono del tutto scomparsi nel nostro appennino, e comunque su tutto l'appennino settentrionale.
E' stato accertato recentemente un ritorno - un felice ritorno!   -  del lupo nell'Appennino centro-meridionale, precisamente nel Parco Nazionale d'Abruzzo.
Tornando a quel tempo e alle nostre montagne, i lupi allignavano numerosi in mezzo alle fratte più alte, entro certo caverne naturali, sui crinali più dirupati. Si contò, dunque, una invasione vera e propria. I pastori accendevano sugli spiazzi, davanti alle capanne e alle baite dei fuochi per tenerli a distanza.
Il caso volle che uno di questi pastori possedesse un cane lupo irriducibilmente selvaggio. Faceva sì la guardia, ma a volte, riprendendo la sua natura avita, diventava terribile anche per il gregge del padrone.
Una notte, mentre l'uomo giaceva nel sonno, e un rimasuglio di fiamma lingueggiava a protezione dell'ovile, situato nei pressi di Case Cattalini, il cane avvertì che i lupi erano nelle vicinanze. D'un tratto, dimenticando il suo dovere, si sentì fraterno con essi. Siccome, in precedenza, era caduta molta neve, si diede rapidamente a menare colpi di coda sulla neve prossima al fuoco, con l'intento di spegnerlo. E vi riuscì tanto che i lupi, entrati nell'ovile, sbranarono buona parte delle povere pecore.

Un vecchio e le sue pratiche magiche

Si racconta anche di un vecchio, morto oltre 150 anni fa, il quale si aggirava sulle nostre montagne praticando arti magiche. Affilava, per esempio, coltelli e rasoi senza adoperare la mola, ma semplicemente percorrendoli lungo il taglio con il pollice e l'indice. Faceva passare il filo nella cruna dell'ago quando era perfettamente al buio. Comandava alle campane di suonare senza che alcuno le spingesse.
Un giorno, giù al Riaccio, torrente che segna il confine con il modenese, incontrò alcuni operai civaghini intenti a smuovere un enorme masso da trasportare sulla riva per farne argine. Prova e riprova essi non riuscivano e non sarebbero certo mai riusciti nell'intento poiché la pietra, oltre ad essere enorme, si abbarbicava a fondo nella terra.
Calava, intento, la sera e quelli, sfiduciati, stavano per allontanarsi. Il mago, allora, fattosi più da presso, così parlò: lasciate in pace quel sasso, tanto non ce la cavate. Andate, piuttosto, a casa che vi aspettano le donne. Domani mattina il sasso sarà dove volete che sia.
Uno di quelli, rivolgendosi al vecchio tra il serio e il faceto, gli chiese: ma chi mai sei tu da comandare ad una forza ben maggiore delle nostre messe insieme? H vecchio rispose: "ciò non vi riguarda, ma domani saprete chi, in effetti, io sia". All'indomani, all'ora stabilita, il grande masso era sulla sponda, collocatovi con bell'arte. Da quel giorno, del vecchio non si ebbe più traccia.

I tesori della torre dell 'Amorotto

Anche la Torre dell'Amorotto ha le sue leggende. Si è sempre parlato di un antico tesoro sepolto ai suoi piedi. Ma, guai a chi avesse tentato di impossessarsene. Una volta, per scommessa, due baldi giovani della Romita si incaponirono nell'impresa. Fattosi buio profondo, con piccone e badile, incominciarono a scavare. Già credevano di essere a buon punto, allorché una immensa fiammata bituminosa si sprigionò dalla buca, avvolgendoli in un filmo infernale e costringendoli ad una fuga precipitosa.
A lungo vagarono sui pendii circostanti urlando e sperdendosi. Furono trovati il mattino dopo, tramortiti a terra, neri come il carbone e senza parola. Quando, dopo qualche tempo, poterono esprimersi fecero capire che il diavolo li aveva assaliti, rimanendo alle loro calcagna tutta quella notte di tregenda.
Intorno alla Torre dell'Amorotto si favoleggia anche questo: nelle notti di luna piena, quando la sottostante vallata sembra illuminata a giorno, e il fiume corre laggiù luccicando, come una fascia di mercurio, un caprone dalle forme gigantesche si aggira per quei ruderi. Qualcuno afferma di averlo visto in varie occasioni e spiega che l'animale fa la guardia al famoso tesoro.

Il Campanile fantasma

Si dice che le campane dell'antico Ospizio di S. Leonardo del Dolo sprofondarono unitamente alla costruzione a causa di geni malefici.
Orbene, quando è Natale e tutte le cose si coprono di neve e di silenzio, chi passa nottetempo per lassù, ode venire da sotto terra vibrazioni fioche, ad intermittenza, di bronzi misteriosi.

I misteri di Casa dell 'Abate

Quando si percorreva a piedi il sentiero che da Civago conduceva a Piandelagotti, dopo passato il ponte sul Dolo, si incontrava - e si incontra tutt'ora - un caseggiato che viene ancor oggi chiamato "Casa dell'Abate". Si narra che un tempo tale località era abitata da un eremita assai vecchio, dalla grande zazzera bianca, che tremava per tutta la persona alta e ossuta e camminava reggendosi ad un grosso bastone. Era della progenie dei giganti e viveva così solitario, cibandosi di radici e di erbe.

La notte il vegliardo usciva sempre solo con un lungo cannocchiale per interrogare le stelle.
Per la verità oggi possiamo tranquillamente dire che il vecchio dalla zazzera bianca altri non era che Giuseppe Caniparoli, vissuto ai primi dell'ottocento, civaghino di nascita, Abate di Montefiorino, docente presso le scuole di tale paese e uomo di vasta e profonda cultura. Studioso d'astronomia, nelle notti stellate usciva di casa munito di un semplice cannocchiale per scrutare astri e costellazioni.
La prima versione del vecchio di Casa dell'Abate è ricca di fascino e di mistero, la seconda, anche se più prosaica, fa parte della storia di Civago, storia in cui l'Abate Joseph Caniparoli (così si firmava) trovò un posto di grande rilievo sia per le indiscusse doti mostrate nel campo dell'insegnamento, sia per quelle che gli furono riconosciute nel magistero ecclesiastico.

Amore e morte

Agli albori dell'800, sul piazzale del paese, antistante la Chiesa ed il cimitero, davano ombra alcuni castagni di rispettabili dimensioni. Ad uno di questi alberi - narra la tradizione - venne impiccato un giovane pastore.
Cosa era accaduto? In quel tempo torme di contrabbandieri infestavano l'appennino reggiano e modenese. Questi, inseguiti dalle guardie ducali, si vedevano sovente costretti ad assalire i viandanti e le case per non perire di fame. Ora, quel giovanotto fu visto una notte introdursi furtivamente in un abituro isolato assai lontano dal centro del paese. Individuato da una spia dei gendarmi,lo sventurato ragazzo fu preso e sommariamente giustiziato come ladrone, anche perché il malcapitato non aveva mai mosso verbo per provare la propria innocenza. Soltanto molto tempo dopo si venne a conoscere la verità. Era accaduto che quel povero disgraziato era andato a trovare, in assenza del marito, una giovane sposa che frequentava da tempo.
Se avesse detto la verità avrebbe avuto salva la vita. Ma tacque per salvare l'onore della sua amata e andò incontro al suo destino con stoico coraggio.
Il cadavere rimase esposto per 2 giorni, crudele monito alla popolazione e ai viandanti che transitavano da quelle parti. Si vuole che, appena giustiziato, si scatenasse in Civago un violento uragano.
Cessato il temporale, un iridato raggio di sole avvolse la salma ancora calda. In quel raggio la gente vide il volto lacrimante e sanguinante del Redentore che era venuto a ricevere l'anima di quell'intrepido giovane. Il fatto avvenne nell'estate del 1810; il giovane, che proveniva dalla borgata "Case di Giammarco", si chiamava Domenico Fioravanti.

Don Rossi - Rettore di Civago - Duchista e mago

II Duca Francesco V° fu a Civago il 27 agosto 1849. alloggiando nella Canonica di Civago. In un capitolo a parte abbiamo dato ampio risalto a questo straordinario avvenimento.
Com'è noto, il Duca consentì la cessione alla Chiesa di Civago di un appezzamento di terreno e di un casolare (noto agli abitanti di Civago come la "casa del prete"), ubicati in località "Case del Dolo".
Come sappiamo era prevosto in quel tempo Don Rossi. L'affabilità del Duca, il grazioso dono fatto alla Parrocchia e, soprattutto, quel sonoro bacio che sua altezza stampò, alle Radici, sulla fronte dell'esterrefatto Rettore, fecero sì che costui, per i restanti anni di sua vita, diventasse un convinto e acceso sostenitore del ripristino della sovranità estense nei nostri tenitori, sovranità che l'unità d'Italia, realizzata nel 1859/60, aveva spazzato via per sempre.
E fu lui, il nostro Don Rossi, che il 15 agosto 1859, da una finestra di Ferdinando Lunardi in S. Pellegrino, lesse alla folla, che gremiva la piazza, una lettera in cui si annunziava l'imminente ritorno di Francesco V°, traendo da ciò argomento per invitare quei montanari a gridare: "VIVA IL DUCA"!
Queste parole, ovviamente, produssero un po' di tafferuglio, durante il quale le guardie civiche dell'appena sorto Regno d'Italia venivano disarmate e condotte negli Alberghi, dove anch'esse furono costrette a gridare: Viva il Duca!
Il giorno dopo, soldati e carabinieri venuti da Castelnuovo Monti e da Montefiorino, trovarono 2 individui di S. Pellegrino con la coccarda di Francesco V° e li arrestarono. Processati, ebbero 1 anno di prigione. Anche Don Rossi fu arrestato e condotto a Modena e rilasciato dopo qualche tempo.
Tornando al nostro Don Rossi, nella sua qualità di Prevosto di Civago, sappiamo che egli rimase alla guida della Parrocchia del paese per oltre 40 anni. Di lui si diceva che fosse un gran burlone e che, nel tempo libero, si dedicasse ad ammannire burle ai suoi amministrati. Ma, nel ricordo, rimane, soprattutto, il suo supposto contatto con gli spiriti dell'aldilà.
Si disse che in qualche occasione, egli abbia compiuto dei veri prodigi, o ritenuti tali. Nel solaio della canonica, ad esempio, custodiva gelosamente, assicurati a catene, dei libri misteriosi che egli, scoccata la mezzanotte, andava a consultare; alcuni vecchi civaghini hanno giurato di aver sentito lo "sferragliare" di quelle catene nelle silenziose e calde notti d'estate, anche in assenza del Parroco.

Qualcuno rimase turbato a lungo per questo particolare. E' bene sottolineare che nessuno ha mai ritrovato quei diabolici volumi, ai quali soltanto don Rossi poteva avvicinarsi.

TRADIZIONI POPOLARI

Le "Rogazioni" in Civago

II rito delle rogazioni in Civago, sino a qualche anno fa, aveva una durata di 3 giorni e veniva celebrato con grande solennità.
Attualmente, per ragioni di praticità, il rito dura un solo giorno e si tiene in occasione della festa dell'Ascensione. In rapida sintesi ci preme rammentare, a futura memoria, le varie fasi in cui si svolgevano, sino a qualche tempo fa, i momenti di questa cerimonia religiosa.
Il rito si celebrava per due giorni all'aperto, presso le varie borgate del paese, e si concludeva in occasione della festività dell'Ascensione con una cerimonia solenne che si teneva, nel terzo giorno, in parte sul Sagrato e in parte all'interno della Chiesa stessa.
La cerimonia era preceduta da una intensa fase preparatoria consistente nell'addobbo della "Maestà" da parte della popolazione tramite arredi, fiori, candelabri e quant'altro potesse conferire lustro e solennità agli agresti altarini.
La cerimonia consisteva in una vera e propria processione che vedeva in testa, ovviamente, il Sacerdote calato nei paramenti delle grandi occasioni, seguito dall'intero paese. Spiccavano, tra i partecipanti, i membri della "Confraternita del Sacro Cuore" con le loro tuniche immacolate, interrotte, in alto, dal rosso delle mantelline.
La processione partiva dalla Chiesa per portarsi presso le "Maestà" della borgata più lontana del paese (Casa Andreine). Nel primo giorno si visitavano le Maestà di 14 borgate; nel secondo si completava il giro con le restanti 13 per finire con la borgata della Costarsa. Il Sacerdote impartiva la benedizione alla case pronunciando la formula rituale in latino che recitava: "liberaci, oh Signore! Dalla peste, dalla fame, dalle guerre, dal flagello del terremoto, dai fulmini, dalla grandine". La rogazione proseguiva con una richiesta che riguardava il raccolto: oh Signore! Degnati di elargire, moltiplicare e benedire i frutti della terra.
Invocazioni di antico sapore pagano, che si perdono nella notte dei tempi. Richieste pregnanti, semplici. Allontana i cattivi eventi, assicuraci il raccolto, salvacondotto di sopravvivenza. I tempi erano duri, difficili; l'intervento dall'Alto era ritenuto indispensabile, vitale.

La befana in Civago

Diverse decine di anni fa, quando il paese era ancora ricco di energie giovanili, i Civaghini sentivano molto la ricorrenza della festa della Befana.
Nella notte tra il 5 ed il 6 di gennaio, gruppi di giovani si recavano davanti alle porte delle case dei compaesani per cantare simpatici motivi popolari con cui si porgevano gli auguri di una buona befana e nello stesso tempo si chiedeva al padrone di casa di offrire, assieme ai rituali dolci natalizi, qualche bicchiere di buon vino toscano. Questi rispondeva quasi sempre cantando, aiutato da endecasillabi in rima nello stile dello "strambotto" toscano. Dopodiché invitava i giovani in casa per brindare alla befana ed all'anno appena iniziato.

Il carnevale in Civago

Fiaschi di vino e frittelle, dal forte sapore di pecorino, costituivano i veri ingredienti di questa ricorrenza. Non si partecipava a Veglioni mascherati per il semplice fatto che in paese non esistevano locali da ballo, elementi indispensabili per realizzare serate del genere. Ci si limitava, nella notte del martedì delle ceneri ad accendere dei grandi fuochi con ginestre e ginepri, riesumando un antico rito pagano. Le fiamme, che volevano annunciare l'ingresso dell'imminente quaresima, si levavano alte nel ciclo dagli spiazzi di ogni borgata del paese e andavano ad unirsi ed a mescolarsi ai fuochi di altre comunità, le quali, sparse nei dintorni, facevano sentire anch'esse la presenza ed il calore delle loro tradizioni.
Sempre nella giornata del martedì delle ceneri, verso la mezzanotte, il silenzio era rotto dal suono di un corno che proveniva da una delle borgate. Una dopo l'altra e senza sovrapporsi, le altre borgate rispondevano. Nell'antichità l'accensione di fuochi e l'emissione di suoni costituivano i mezzi più idonei per segnalare l'imminenza di un pericolo. Riteniamo che, nel nostro caso, la segnalazione è riferita all'inizio dei quaranta giorni di penitenza che attendono il buon cristiano prima della Pasqua.
I nostri vecchi hanno sempre sostenuto che tutti in quei momenti sentivano la necessità di scambiare con gli altri un cenno d'intesa. In quei momenti il paese si ritrovava e ritrovava la sua unità e la sua forza.
C'era poi sempre qualche giovane che, approfittando della serata particolare, cercava di avvicinare la ragazza su cui da tempo aveva posato gli occhi.

PER L'INAUGURAZIONE DELLA STRADA IN CIVAGO

    Qui dove il fiore della vita tardi
    si sviluppò, tra i castagneti folti,
    una diana festiva ci ha raccolti
    col richiamo di musiche e stendardi.

Qui per opra di muscoli gagliardi
e di potenti ingegni, su sconvolti
massi è giunta la strada che per molti
anni fu sogno e or ride ai nostri sguardi.

    Qui genio ed arte si son baciati
    in un felice amplesso e l'incorona
    l'alpe con i suoi fiori profumati.

E scende da quei culmini giganti
una voce che a nuovi ardir ci sprona;
qui si onora l'Italia: avanti! avanti!

Umberto Monti

CIVAGO

Nel desiderio ho sempre una villetta
bianca, che sbuca dai castagni attorno:
davanti ha una spalliera di bei monti,
ai piedi il verde di pratine,
sopra il gioco delle nuvole e del sole.

E' rallegrante come una fanciulla,
ed al soggiorno invita col ristoro
che reca il venticello giù dai boschi,
e col silenzio del vicino borgo.

Rompe la quiete, a valte, una campana
dalla parrocchia anch'essa solitària,
a cui tien dietro il dindolia di greggi
sparsi negli alti pascoli, il garrire
di rondineIle, l'abbaiar d'un cane
alla lepre che fugge, e il secco sparo
d'un cacciatare là da quella balza.

Ti saluto, Civago, che dell'Alpe
il giardin m'appari nella conca
vegliata dai giganti aspri, solenni:
Beccara, Roncadello, Giovarello,
e il Ravino fantastico, scogliera
di precipiti massi sulle fredde
acque del Dolo, albergo delle trote.

Detergere vorrei l'anima in te,
dolce Civago, e ritornarla schietta
come la fede dei pastari tuoi,
che vanno e vanno e non si sazian mai
di conquistare vette ed orizzonti.

ARMANDO ZAMBONI


Civago

D'inverno il mio paese riesce a stento
fra l'alta neve a fare capolino;
sembra un abbandonato monumento
precipitato giù per il Ravino.

        D'estate, quando spira un po' di vento
        somiglia invece a un vispo ragazzino
        che non riesce a star fermo un sol momento
        e gioca in mezzo al verde a nascondino.

E' quieto, è gaio, è come lo si vuole
coi suoi prati nell'ombra e il lieve lieve
frusciar del fiume tra maestose gole.

        Coi sogni d'una strada, la sua neve
        e le cime svettanti in mezzo al sole
        e un'acqua che rivive chi ne beve.

Ralfo Monti


Invito a Civago

Lasciate il solleone o villeggianti
e l'afa che vi opprime negli uffici
e venite a Civago tutti quanti
dove trascorrerete ore felici.
Le ombre nostre che ammiccano agli amanti
le osterie che rallegrano gli amici,
il fiume che promette buona pesca
vi aspettano vestiti d'aria fresca.

        Volendo un'iniezione di morale
        che vi tolga dal cuore ogni amarezza
        venite all'acqua che non sa di sale
        ed è leggera come una carezza.
        Qui non berrete l'acqua minerale
        che tanto fa parlar di Cervarezza
        ma quella imbottigliata da poche ore
        alla magica fonte dell'amore.

Se non volete andare sul Ravino
e sdegnate di scalare il Giovarello
ecco il Parco dei Principi al Canino,
e se trovate scomodo anche quello
vi potrete sedere all'Appennino
sulla veranda di ultimo modello
e ammirare se ci trovate svago
il più bel panorama di Civago.

        La Penna occhieggia maliziosamente
        all'alpinista, come un'amorosa
        che si comporta dispettosamente
        ragion per cui nessuno se la sposa.
        Ma se qualcuno molto intraprendente
        vuol conquistarla, troverà la cosa
        piena di rischi e degna d'emozioni
        come nemmeno un modulo Vanoni.

Giù, spumeggiando in assolate gole
il torrente dall'acqua cristallina
è certamente quello che ci vuole
alla bella e moderna signorina
cui piace tanto far baciare al sole
l'epidermide là dov'è più fina:
e il sole nostro è tanto bello e puro
che alcune san trovarlo anche allo scuro.

        Comunque ecco per chi non ama i raggi
        del sol che nasce sopra il Roncadello
        i nostri castagneti e i nostri faggi
        dove svolazza il merlo ed il fringuello,
        e dove piluccando frole e baggi
        scoprirete signori quanto è bello
        riposarsi d'estate almeno un mese
        in questo tranquillissimo paese.

Ralfo Monti


Al Prof. Dott. Umberto Monti

Diletto amico, quando per la via
che tanto desiasti passerai,
quando da Cervarolo salirai
verso Civago ch'è la patria mia,

sotto la torre d'Amorotto, pria
che il limite ne varchi, troverai,
seduto ad aspettarti sotto i rai
del sol, l'amico in dolce attesa e pia.

Ei ti dirà: Le tue querele cessa,
quella montagna che cotanto amasti,
ecco, per te ha la strada, e già per essa

la civiltà cammina: ecco I'aurora:
è fatto vita ciò che tu sognasti.
Verrà il meriggio nel tuo nome ancora.

Sante Romiti

CIVAGO

Esulta, Reggio, poiché finalmente
sui tuoi monti hai trovato la regina
delle villeggiature, ove la gente
a larghe frotte e lieto pie cammina.

Qui il respiro dell'Alpe ampio si sente,
e canta i suoi begl'inni l'Abetina,
perenne orchestra, che poi la potente
voce del Cusna lancia alla marina.

Ridon le balze, e in ogni verde sponda
c'è un antro per la pace da cui scende
acqua per ogni fauce sitibonda.

Qui la vita in dolcezze si protende
ed una balda gioventù gioconda
per l'avvenire pianta le sue tende.

Umberto Monti


VISITATE CIVAGO

Visitate Civago, se desio
vi prende d'ombre fresche e di fontane,
che v'accompagneran per le montane
balze col lor perenne mormorio.

Visitate Civago, se d'oblio
han bisogno le vostre pene umane.
Quanto sollievo in quelle selve arcane,
e quanta pace ai margini d'un rio!

Visitate Civago. In miniatura
troverete una Svizzera ridente
d'ogni bellezza che può offrir natura,

e gente mite, d'ogni pregio adorna.
Chi visita Civago, non si pente,
e chi ne parte, sempre vi ritorna.

Umberto Monti


CIVAGO ED I SUOI BOSCAIOLI

Ampio cerchio di monti ti recinge,
Civago, e t'offre verdeggiante sfondo;
il passo chiude di tua chiostra al fondo
la torre d'Amorotto, muta sfinge.

Vanno i tuoi figli per le vie del mondo
né di ricchezza bramosia li spinge;
vanno siccome rondini cui stringe
autunno il cuore e aprile il fa giocondo.

Lascia gli abeti e i faggi il boscaiolo,
i monti varca, scende verso il mare
tra pini e lecci finché torni maggio.

Frene del cor la mesta sposa il duolo
cantando ai bimbi presso il focolare:
Babbo ritorna quando è verde il faggio.

Sante Romiti 

 

5 - Civago nella storia

CIVAGO - SUE ORIGINI

Civago è l'ultimo paese dell'estremo lembo appenninico nel territorio reggiano, prima di arrivare alla solitudine e al silenzio solenne del crinale dove svettano le cime del Cusna, del Prado, del Monte Vecchio, fino alla Cappellina del Passo delle Forbici. Civago ha assunto le caratteristiche di centro abitato in epoca abbastanza recente, raggiungendo il suo pieno sviluppo nei primi anni del '900. E' proprio di quegl'anni il periodo di massima espansione di questo paese che, con oltre 1000 abitanti, divenne una delle più popolose località dell'Alto Appennino Reggiano.
Civago sorse per iniziativa di alcuni pastori di Cazzano i quali, per loro comodità (vicinanza ai pascoli alpestri), scelsero di stabilirsi definitivamente nell'area attualmente occupata dal paese.
I problemi che essi dovettero risolvere furono, da un lato, il consolidamento delle fragili, primitive capanne per poter affrontare, con maggior conforto e sicurezza, i rigori delle stagioni invernali, dall'altro lato la costruzione di una Chiesa che li affrancasse dalla dipendenza della Pieve di Cazzano. Ben presto le capanne divennero delle solide case.
Per quanto, invece, concerne la Chiesa, pur essendo stata eretta con una certa celerità, furono necessari tempi molto lunghi prima che la stessa riuscisse ad ottenere la piena autonomia dalla Parrocchia di Gazzano.
La storia di un paese, quasi sempre coincide con la storia della sua Chiesa, tanto che i progressi e lo sviluppo del luogo di culto vanno di pari passo con lo sviluppo ed il progresso del paese.
In ricordo dell'Ospizio di S. Leonardo del Dolo, gli abitanti di Civago intitolarono a S. Leonardo la loro Chiesa e, quando i tempi apparvero maturi, essi rivolsero al Santo Padre una petizione per avere stabilmente un Cappellano. Il Papa Urbano VHI0 li accontentò con un "Breve" del 6 luglio 1626; a poco a poco ottennero l'esercizio delle diverse funzioni e Sacramenti: gli ultimi ad essere accordati furono il Precetto Pasquale e la celebrazione del Matrimonio. In tal modo la Chiesa di Civago da "Cappellania" passò a Parrocchia, sino a ricevere il "premio" della "Prevostura" nel 1905.
La Chiesa di Civago fu oggetto di frequenti incontri con i Vescovi della Curia Reggiana. Ciò a testimonianza dell'importanza che la Chiesa stessa aveva assunto, nonostante fosse di recente costituzione.
La prima visita la effettuò il Vescovo Coccapani nel 1626, visita che replicò nel 1636. H Vescovo raggiunse il paese a dorso di cavallo, essendo la località raggiungibile solo attraverso un'impervia, ripida e stretta mulattiera. La terza visita vide la venuta nel 1652, addirittura, del Cardinale Rinaldo D'este. Nel 1664 fu la volta di Mons. Marliani; nel 1679 giunse Mons. Bellincini, quindi Mons. Picenardi.


IPOTESI SULL'ORIGINE E SUL SIGNIFICATO DEL NOME "CIVAGO"

Sull'origine e sul significato del nome "Civago" siamo in grado di riportare, qui di seguito, i contenuti di due diverse ipotesi formulate da due studiosi del nostro Appennino: il Malagoli di Reggio Emilia ed il Gigli di Pavullo nel Frignano.

A) Ipotesi dello storico Malagoli
II Malagoli, nel suo Trattato: "Toponimi romani coloniali nel reggiano" afferma che alcuni nomi di paesi del reggiano con suffisso in "aco" o in "ago", di area celtica, vanno associati a nomi personali latini. Lo studioso cita espressamente Civago, facendolo derivare dal nome di persona latino "Caepius", come pure Cavriago dal nome "Curvelius".
Ma allora, se diamo un certo qua! fondamento a tale tesi, dobbiamo escludere che siano stati i pastori di Cazzano - fondatori del paese - a scegliere il nome "Civago". E' più verosimile supporre che il territorio su cui sorse tale località si chiamasse, già da molto prima, Civago. Caepius, con ogni probabilità, fu un legionario e poi un colono romano a cui, secondo il costume di Roma, era stato assegnato, dopo una campagna militare sostenuta e vinta con le genti del luogo, una parte cospicua dei luoghi di cui ci stiamo occupando.
Ma la storia, o il caso, o qualche altro strano evento hanno chiamato in causa "Caepius", un cittadino romano il quale, con ogni probabilità, fu il primo proprietario terriero dei nostri luoghi.

B) Ipotesi dello storico Lorenzo Gigli
Lo storico Lorenzo Gigli (nato nel Frignano nel 1685) nel suo "Vocabolario etimologico topografico e storico delle castelle, rocche, terre e ville della provincia del Frignano" afferma che, in antico, con l'accezione "Civago" non si voleva indicare un paese, bensì una larga estensione territoriale, più precisamente "un Distretto".
Riportiamo, qui di seguito, uno stralcio di quanto il Gigli sostiene in un importante capitolo della sua opera:
"Nel Distretto di Civago, territorio in cui si trovano alte montagne, vi era una grande torre erettavi da Pompeo Magno, dove il grande generale romano si era rifugiato a seguito delle sonore sconfitte inflittegli da Giulio Cesare. Dopo di lui si erano colassù ritirati Fabio Massimo e Cassie che pensarono di trovare rifugio in quei luoghi pressoché inaccessibili. Il Gigli riferisce che queste straordinarie notizie erano state riportate in due tavole di bronzo, rinvenute presso la suddetta torre e poi date in custodia alla nobile famiglia dei Principi MASSIMO di Roma.
Lo storico conclude che può ben anche credersi come assai verosimile che molti altri romani o in questa, o in varie altre occasioni, si ritirassero in quei tenitori.
Possiamo, quindi, tranquillamente concludere che la Torre dell'Amorotto, nell'epoca in cui l'Amorotto vi si era insediato, non altro era che l'ultima versione di un fortilizio che in precedenza era entrato nel più articolato complesso del Castello delle Scalelle. Andando ancor più a ritroso nel tempo, la torre - secondo le prove documentali rinvenute dal Gigli - era stata addirittura eretta e posseduta da personaggi che, con nostra grande meraviglia, rispondono ai nomi di Pompeo Magno, di Fabio Massimo e di Cassio.

ANDAMENTO DEMOGRAFICO DEL PAESE

Nell'anno 1615 fu effettuato un censimento su tutto il territorio della Podesteria di Minozzo.
Civago, già attivamente presente nella Comunità, contava allora 26 famiglie per un totale di 153 persone; forniva alla Podesteria 14 soldati e garantiva una produzione di biade da mangiare pari a 669 staie, nonché biade da semenza per 155 staie.
La peste bubbonica (di Manzoniana memoria), che colpì l'Italia settentrionale attorno alla primavera del 1631, interessò anche il territorio delle nostre montagne. Tardò a diffondersi nei paesi della Podesteria a causa del loro isolamento rispetto alle località di pianura. Tuttavia, a partire da una certa data, incominciarono a manifestarsi morti improvvise a Carù, a Cere, a Carniana, a Cervarolo e alla Govemara.
A causa di ciò fu decretata la sospensione di ogni commercio con le città ed arrivò il divieto, sia dalla parte del Duca di Modena, come dalla parte del Granduca di Toscana, di portarsi in maremma con le pecore.
Fra tutte le comunità provate dal contagio, la strage maggiore la subì il Gazzanese. Civago dovè contare ben 70 decessi, quasi la metà dell'intera popolazione. Fu una vera ecatombe. Ma con il sopraggiungere dell'autunno, quasi per incanto, la grande carneficina si arrestò.
Vigendo ancora l'impedimento della quarantena e con l'inverno oramai alle porte, i pastori si industriarono a passare l'Alpe clandestinamente.
Buona parte delle pecore della Podesteria (e quindi anche i "branchi" dei nostri antenati) ripararono in Garfagnana, e di lì nelle Maremme. Nel Minozzese il numero degli ovini ammontava a 2.450 capi.
Sebbene manchino dati per accertare la mortalità dovuta ad altre calamità, come il colera di fine 800, si può affermare senza ombra di dubbio che la peste del 1631 è stata il flagello più micidiale che, per quanto si sappia, si sia riversato sopra le nostre popolazioni.
Lasciata la peste alle spalle, l'andamento demografico tomo a segnare positivamente lo sviluppo della Comunità civaghina. Dai 153 abitanti contati nel 1615 si passò alle 324 unità registrate nel 1724; il numero degli abitanti, che nel 1829 aveva superato quota 500, raggiunse il massimo storico nei primi anni del 900 con oltre 1.000 persone.

STATO DELLE ATTIVITÀ' ECONOMICHE DEL PAESE

Agli albori dell'800, Filippo Re, agronomo di chiara fama del Ducato di Reggio Emilia, effettuò un viaggio "Teocriteo" attraverso le nostre montagne che gli permise di annotare, in una approfondita relazione, lo stato delle attività agresti praticate nell'Alta Valle del Dolo.
Interessante e curiosa l'annotazione riferita alla situazione che lo studioso ebbe modo di rilevare in quel di Civago. Egli apprende che il paese, con i suoi 418 abitanti, trae il suo maggior prodotto dalle castagne: circa 500 staie all'anno. Mediamente, ogni abitante di Civago poteva contare su circa 70 kg. di questo prezioso frutto autunnale.
L'agronomo aveva notato che i Civaghini fertilizzavano i loro campi levando le cotiche (zolle) dal terreno per ammassarle in tanti mucchi a cui veniva dato fuoco. A combustione avvenuta sotterravano con le zappe la terra bruciata. Essi ricavavano così dalle scandelle (una specie di orzo che matura in meno di 2 mesi) e segale, non seminando frumento se non marzuolo, sei chicchi per ogni seme. Una buona resa, se la si confronta al rendimento dei terreni delle comunità confinanti.
Ma la fonte di reddito più significativa, in quei tempi, era rappresentata dal!'antichissima pratica della pastorizia.
Come già affermato in altra parte del racconto, Civago fu fondata da alcuni pastori di Cazzano i quali, spinti dalla necessità, furono costretti ad andare a cercare lontano dal paese d'origine nuovi pascoli per le loro greggi. I nostri antenati (e successivamente i loro discendenti) prestavano tale loro attività per circa sette mesi all'anno nei nostri luoghi e per i restanti cinque nelle maremme o nella bassa padana.
Il luogo di svernamento più abituale era la maremma toscana. Da quando, però, per intercessione del Duca, si aprì il varco del mantovano, data la minore difficoltà che presentava il tragitto, una parte dei nostri pastori si infilò verso la pianura del Po. L'arrivo dalla maremma o dalla bassa padana, se non intervenivano ragioni speciali, era piuttosto tardivo. Infatti, le zone pascolative, non solo dovevano essere sgombre di neve, ma già sufficientemente ammantate di erbe.
Non ci doveva più essere la minaccia di nevicate da mettere il pastore nel peggior imbroglio d'avere a nutrire una belante greggia senza provviste di foraggio. Sono in molti a ricordare come le non tante rare nevicate di fine marzo mettessero in serie difficoltà le avanguardie dei nostri pastori appena rientrate dai luoghi di svernamento.
Iniziavano la stagione portando le greggi in prossimità delle prime macchie ove riappariva, coi bucaneve, l'erba nascente. Poi finalmente a maggio eccoli a dominare le altezze, a riprender possesso delle conche a due passi dalla neve che indugia oltre il solito, quando tutto sorride alla primavera incipiente ed il lenzuolo immacolato del Cusna accenna a squarciarsi qua e là.

Filippo Re conclude con queste acute osservazioni il suo viaggio agronomico nella montagna reggiana effettuato alla fine del '700.
Per quanto conceme l'attività agricola vera e propria egli rileva che la causa del tristo stato della coltivazione nei monti non è nella infeconda qualità dei terreni, e nella strane vicende dell'atmosfera ma piuttosto nella pigrizia alimentata dall'ozio, nell'eccessivo amore per le bevande alcoliche e nell'emigrazione.
Per quanto riguarda, invece, il problema dei pascoli egli sostiene che, malgrado la loro estensione in montagna, il foraggio scarseggiava. Ciò era dovuto, sempre a giudizio dell'agronomo, sia ad una insufficiente fienagione, sia all'incuria a cui i prati erano esposti.
Troppo ombreggiati, privi di argini e scoli che contenessero nella giusta misura la troppo rapida fuga dell'acqua verso il piano, non arricchiti da concimazioni adeguate.
Un'altra causa consisteva nell'uso di introdurre nei prati il bestiame troppo presto, quando l'erba era appena spuntata, con il risultato di renderli prematuramente sterili.
Con l'avvento dell'industrializzazione inizia il massiccio esodo dalle zone di montagna.
Le frazioni più piccole e lontane si spengono progressivamente. La popolazione incomincia ad accentrarsi nelle fasce territoriali economicamente più forti. Anche Civago vive questa drammatica situazione e va senz' altro annoverato, a partire dai primi del '900, tra i paesi in fase di progressivo, netto calo demografico.
Intanto vanno scomparendo nel paese, quasi del tutto, i mestieri e le attività tradizionali come i carbonai, gli scalpellini, i vetturini, i taglialegna, i pastori ecc.
A questa situazione viene ad accompagnarsi l'abbandono e la rovina di quei poveri impianti e manufatti paleoindustriali costituiti dai metati per l'essiccazione delle castagne, dai luoghi attrezzati per la produzione di calce viva e, soprattutto, dai caratteristici mulini ad acqua.
Il fenomeno è comunque di carattere generale e riguarda, come abbiamo detto, tutti i paesi di montagna.
Possiamo concludere osservando che l'emigrazione, se pure ha consentito un miglioramento delle condizioni economiche, ha tuttavia depauperato i borghi della montagna, intaccando la residua, indebolita compagine sociale; alla rapida scomparsa dei riferimenti storici della tradizione si sostituiscono, ormai, nuovi modelli di vita con, quindi, nuove prospettive per il futuro.

IL DUCA FRANCESCO V° IN CIVAGO

Pochi, anche tra gli studiosi di cose montanare, sanno che l'ultimo Duca di Modena, Francesco V°, fu una volta in Civago (ultimissima e lontanissima propaggine del suo Regno) e sul Passo delle Forbici.
La visita del Duca ebbe luogo il 27 agosto 1849 e, il Rettore della Chiesa di Civago di allora, Don Antonio Rossi, volle serbarne il ricordo nel libro principale del suo archivio.
Veramente Don Rossi non segnò la gradita e importante visita nel giorno in cui essa avvenne. Anzi, aspettò qualche anno a prendere la penna, ma quando la prese il suo animo doveva traboccare di riconoscenza per il Duca Che cosa era successo? Una cosa molto semplice. Allorché Francesco V° si trovò in Civago, alloggiato nella Canonica, alla sera dopo cena, tra un bicchiere e l'altro di aleatico, Don Rossi chiese al Duca che cedesse alla Parrocchia di Civago un appezzamento di terreno situato sulla sinistra del Dolo, in località che, ancora oggi, si chiama semplicemente "il Dolo" o "Case del Dolo". In questa località, nell'Alto Medio Evo, sorgeva, come è noto, "l'Ospizio di S. Leonardo del Dolo".
Dunque Don Rossi chiese quel fondo al Duca, il quale, trovandosi in quel momento di buon umore, glielo promise, invitando il Parroco a stendere regolare domanda all'Intendenza di Modena. E la promessa fu mantenuta tanto che, l'anno dopo, il 26 giugno 1850, Don Rossi si recò a Reggio Emilia e a Modena per assistere al Rogito che sanciva il grazioso dono fatto a "cotesta Chiesa di Civago della possessione del Dolo".
Fu dopo il ritorno da questo viaggio, che era costato a Don Rossi 30 Francesconi e 10 lire di Modena, che il buon prete prese gli appunti annotati a suo tempo e li segnò sul libro più importante e cioè sul libro dei battezzati, abbinando la notizia del lascito con quella della visita ducale.
Questa seconda parte è per noi più interessante perché contiene la descrizione del viaggio che il Duca fece, il giorno dopo il suo arrivo, sul Passo delle Forbici e sul Passo delle Radici. La nota fu scritta alla fine di giugno 1861. Segno che il Rettore aveva saltato un certo numero di pagine bianche e che poi, a poco a poco, riempì.
Riportiamo ora, con l'aggiunta di qualche chiarimento, il testo della nota che non è priva di qualche sgrammaticatura:
"il primo ricorso lo feci la sera delli 27 di agosto 1849 in occasione che Sua "Altezza Reale Francesco V° fu costì (sic!) da me a dormire con il Marchese Forni e Gere "e Pavolucci e Alcati e l'Ispettore dei boschi di Pavullo, ed altre persone. Nel giorno 28 "agosto lo accompagnai io e l'anziano Rettore di Cervarolo, Don Carlo Antonio Tellina ed "il Ricetore (sic!) di Civago, Angelo Galli, fino al suo bosco cosiddetto "Valle dei Porci" e "poi alla Lama Lite.
Angelo Galli doveva essere un Guardia boschi governativo, nativo di Cerreto, ma residente a Civago.
Il Duca, quindi, salì da Civago all'Abetina; Don Rossi non ci dice se andarono alla Segheria, ma certamente sì, giacché a quei tempi, passava da quelle parti la strada più agevole per salire alla Lama Lite.

La Lama Lite è la sella, alta 1760 metri, che congiunge la  dorsale   appenninica  propriamente  detta  alla  catena  del  Monte   Cusna.  Ed  è meritatamente  famosa per essere  stata scelta,  nell'anno  1928, a sede  del Rifugio  "Cesare Battisti",  a cui fu pronosticato, meritatamente,   un grande avvenire.
Mi preme ricordare i primi gestori del Rifugio "Cesare Battisti": essi furono due giovani coniugi di Civago, belli di aspetto e di mente, Arturo Cecchini e Lucia Fioravanti.
Tornando a Don Rossi, il testo della sua nota così prosegue:
"allora il Rettore di Cervarolo, essendo affatto stanco perché aveva percorso tutta la "strada a piedi e perché di anni 78, il Principe diede 3 svanziche ad un giovane della "Romita, cioè a Luigi del fu Celeste Romiti che lo riaccompagnasse verso casa. Ed io e il "Ricetore lo accompagnassimo (il Principe) ed andassimo a desinare alla fonte di Sasso "Fratto, ove comincia il fiume Dolo.
Giunti alla sella di Lama Lite, la compagnia si divise, n Rettore di Cervarolo, accompagnato da Luigi Romiti scese a Cervarolo, passando per Vallestrina e il Duca, con gli altri, si recò alla fonte di Sasso Fratto. Qui Don Rossi non è stato preciso. Infatti la fonte di Sasso Fratto è sopra la "Sega", alla sinistra dello sprone di Monte Vecchio. Ma l'aggiunta che il Rettore fa, "ove comincia il fiume" fa sospettare, invece, che siano andati "al fontanone" o ai "fontanacci", ossia alla sorgente del Torlo. Sorgente abbondantissima e fredda, che si vede anche dal basso per una bianca cascatella. Qui dunque fecero colazione. Ma riprendiamo con la descrizione di Don Rossi:

"Dopo si andiede alla Marinella e poscia al Col del Pennato. E con 7 cavalli sempre, "poscia, andassimo ("sic!) alle Forbici ove si fermassimo un'ora e si fece il nome del "Principe in un foggio dall'Ispettore di Pavullo e colà venne ad incontrarlo il Rettore di "Massa e di Sasso Rosso, certo Bertolani.
Dalla Fonte di Sasso Fratto il Duca salì alla Marinella. Questo nome, che in certe carte antiche è dato come "Alpe Marina" e anche "Alpe Mattina", è il crinale che dopo Monte Vecchio scende alla Forbici. E' propriamente quella parte che sovrasta il "Lago delle Ragazze", prima degli "Scaloni". Dopo questo si ha il Colle del Pennato.
Da quanto detto si desume che la comitiva salì sul crinale, lasciando sulla sinistra il Lago delle Ragazze e poi continuò per vetta, sino al Passo delle Forbici.
E' una escursione di insuperabile bellezza. Sì ha sotto gli occhi tutta la valle della Garfagnana, con sullo sfondo le guglie dentate ed accidentate delle Alpi Apuane.
Sulle Forbici venne incontro al Duca Don Vincenzo Bertolani, Parroco di Massa. La comitiva si trattenne lì un'ora, durante la quale l'ispettore dei boschi di Pavullo incise il nome del Principe sul tronco di un faggio. Ma leggiamo il testo di Don Rossi:

"Poscia si passò avanti e si andiede tutti insieme sulla cima del Monte Giovarello, "ove si fermassimo per un quarto d'ora, poscia si calò a man destra e si andiede allo "stradello, ed indi si andò verso le Radici, ove ci raggiunse Don Pellegrino Montelli di "Asta, con "Petizione al Principe".
Dalle Forbici alla vetta del Giovarello la distanza è di circa un quarto d'ora di salita, ripida assai, per cui è da credere che non tutti l'abbiano fatta, ma probabilmente qualcuno, con i cavalli, sarà andato avanti ad aspettare gli altri nello stradello. Fino a qualche decennio fa così si chiamava una via che andava ai laghi di Cella e poi entrava nella rotabile. Nel 1849 questa era appena tracciata, ma vi si passava già bene con bestie da soma. Don Rossi così prosegue:
"Poscia stradafacendo incontrassimo l'Arciprete di Cazzano, Don Saverio Rondini, "con il Rettore di Fontanaluccia, Don Giuseppe Bianchi e lo accompagnassimo sino alle "Radici, strada crociata che va a S. Pellegrino, ove da cavallo il Duca mi diede un bacio e ci "dessimo l'addio ed esso con gli altri andiede verso le fontanine e noi a Civago. Firmato: "Don Antonio Rossi lì 29 giugno 1850 in Civago.
Mentre , dunque, la comitiva andava sullo stradello verso le Radici, dopo il Parroco d'Asta arrivarono quelli di altri due paesi: Gazzano e Fontanaluccia. Si vede che la notizia della presenza del Duca si era sparsa nei villaggi dei due versanti ed i Parroci accorrevano sia per portare omaggio al loro Sovrano, sia per chiedere qualche favore. L'occasione era veramente eccezionale, tanto eccezionale che non tornò mai più. Potevano, una volta tanto, avvicinare il Duca, senza le noiose e lunghe pratiche che erano necessarie a Modena. Don Rossi non ci dice se presentarono petizioni.
La comitiva andò alle Radici, dove ancora non esisteva né albergo, né locanda, ma solo un piccolo sentiero che conduceva alla Via Vandelli, nella località dove, poi, sorse il capannone, fabbricato che serviva agli uomini che lavoravano alla strada. E' probabile che Don Rossi si sia congedato dal Duca proprio sul Passo delle Radici, dove c'è un incrocio di strade: una che scende in Civago, un'altra che va a S. Pellegrino, una terza, infine, che conduce a Piadelagotti. Si erano tenuti buona compagnia quei Signori, liberi da ogni etichetta di corte, tanto che il Duca, al momento del congedo, diede un bacio a Don Rossi, il quale se ne ricordò sinché visse.
Quando, riempite le pagine bianche che aveva saltato nel suo libro parrocchiale, Don Rossi si ritrovò la pagina scritta 11 anni prima, era l'8 giugno 1861 ed il Regno d'Italia era stato solennemente proclamato e si andava sempre più consolidando.
Che cosa avrà pensato Don Rossi, rileggendo quella pagina che gli ricordava l'episodio più bello della sua vita? Avrà egli immaginato che l'esilio del suo Duca era questa volta definitivo? Forse no. Forse morì con la segreta convinzione che quel nuovo ordine di cose non fosse stabile. Forse il lascito ottenuto su "al Dolo" e il bacio ricevuto sul Passo delle Radici continuò ad alimentare nel suo animo, insieme con la riconoscenza, anche il rimpianto per un mondo che non doveva tornare mai più.
siamo grati a Don Rossi per averci lasciato il ricordo di questo viaggio di Francesco V° in Civago e sulle Forbici, ma vorremmo sapere qualcosa di più, per esempio, su come il Duca arrivò in paese e quale fu lo scopo della sua visita.
Di questo viaggio, che pure durò 4 giorni, non fa parola lo storico del Duca Bajarok; neppure all'archivio di Modena ne esistono tracce. Il "Messaggere" di Modena ci fa sapere che il 24 agosto il Duca era in villeggiatura a Pavullo e che vi ritornò il giorno 30. E' in questo intervallo che avvenne la sua visita nella nostra montagna. Con ogni probabilità il Duca salì a Bari gazze e di lì per la Vandelli andò alla Selva di S. Maria, quindi a Piandelagotti e, infine, a Civago.
Non passò certamente da Fontanaluccia, né vi salì da Toano, perché, in tal caso, i Parroci di Gazzano e di Fontanaluccia non sarebbero corsi sull'Alpe per rendere omaggio al Principe. Ma per quale motivo egli fece questo viaggio? Si, certamente, vi sarà stato il desiderio di vedere la sua tenuta dell'Abetina e quello di fare una gita in alta montagna. Ma non è improbabile che il viaggio avesse anche un altro scopo. Non dimentichiamo che i tempi erano grossi, che le idee di libertà serpeggiavano ovunque e facevano proseliti anche in montagna tra le famiglie dei maggiori possidenti.
D'altra parte le popolazioni anelavano a maggiori comunicazioni per incrementare i rapporti commerciali. La parentesi del 1848 era chiusa, è vero, ma poteva riaprirsi da un momento all'altro. Bisognava, dunque, cercare di assicurarsi la fedeltà delle popolazioni, bisognava aiutarle nei desideri legittimi. Nel caso nostro vi era un problema veramente importante che doveva richiamare tutta l'attenzione del Duca: le comunicazioni di Modena con le terre della Garfagnana.
I lavori della strada delle Radici, cominciati nel 1839, erano stati sospesi nei primi anni da Francesco V°, ma le vicende del 1849 avevano persuaso il Duca che qualche cosa bisognava fare per conservare la fedeltà delle popolazioni. Questo lavoro era, del resto, troppo necessario e da tutti reclamato, tanto che i lavori furono ripresi con ardore nel 1859, l'anno in cui nasceva il Regno d'Italia.
Questa visita del Duca nel nostro appennino lasciò, com'è naturale, un durevole ricordo. Il Prof. Monti riuscì a cogliere qualche aneddoto al riguardo dalla viva voce dei vecchi civaghini negli anni '30, quando egli era solito frequentare Civago con una certa assiduità. 11 Monti fu incuriosito da due episodi che accaddero proprio quando Francesco V° si trovò in Civago. Un certo Paolo Gaspari, pover'uomo, ma grande fumatore, andava dicendo: "se avessi una teggia di tabacco quanto vorrei fumare!" Lo udì Don Rossi, il quale lo chiamò e gli disse: volete proprio levarvi la voglia di fumare? Certo che sì, sig. Rettore. Ebbene, trovatevi domani mattina alla Maestà delle Case di Civago e, mentre il Duca passerà, chiedetegli l'elemosina. Ma badate bene di dirgli così: Eccellenza, Dio vi dia il buon giorno e lunga vita. Fate l'elemosina a questo povero cieco. Così fece. Il Duca, udita la richiesta, si rivolse a Don Rossi, il quale confermò con il capo il bisogno di quell'uomo. E il Sovrano diede una moneta d'oro. Un altro curioso episodio avvenne quando Francesco V° si trovò alla fontana di Sasso Fratto, nei cui pressi sostava una pastorella. Questa, poi, finche visse - e morì molto vecchia - raccontò sempre che il Duca, bevuto che ebbe, esclamò"acqua sublime, acqua soave". E aveva ragione.

FERDINANDO DI LORENA IN CIVAGO

Sempre in tema di viaggi, dalle carte del Prof. Monti, abbiamo potuto apprendere che un altro Principe passò da Civago.
Anche questa notizia è fornita dal parroco di Civago Don Rossi, il quale la lasciò scritta su un foglio di guardia in fine di un altro libro dei battezzati che. però, non fu iniziato da lui, ma dal suo successore, Don Gaspare Dionigi, nel 1867.
Si tratta di una visita di passaggio di Ferdinando di Lorena. figlio del Gran Duca di Toscana: Leopoldo 111°. Ma ecco la notizia:
"Passò da Civago il Principe ereditario, figlio del Gran Duca di Toscana e venne in "Canonica, dove lo favorii con un fiasco di vino aleatico ed aveva con seco 13 persone ed "11 cavalli. Fra questi vi era un certo Ispettore Turchi di Castelnuovo Garfagnana. Giunse "costì alle 4 di dopo pranzo, venendo da Frassinoro e partì di costì dopo le 5. Passò l'Alpe "per Col lungo con 3 guardia-boschi e cioè: "Giandomenico Ferretti, Angelo Galli ed Anselmo Francesconi,
"Teste Don Antonio Rossi, Parroco". 

4 - I percorsi della religiosità popolare

I PERCORSI DELLA RELIGIOSITÀ' POPOLARE

LE MAESTÀ'

Sugli isolati percorsi e sui passi del nostro appennino, lungo i sentieri impervi, negli spiazzi delle borgate o ai margini delle strade, dei ponti, dei campi, dei crocevia, sono ancora visibili, e oggetto di devota attenzione, quelle caratteristiche piccole costruzioni in pietra chiamate indifferentemente "tabernacoli", "edicole", "pilastrini", "maestà".
La funzione di queste piccole costruzioni si rifa alle consuetudini agricole risalenti a prima della cristianità. Costituivano oggetto di culto pagano e di rassicurazione per il viandante, ma anche un preciso punto di riferimento per individuare un luogo, un confine.
Con l'avvento del cristianesimo dalle "nicchie" delle "Maestà" emergono figure care alla nostra fede: dipinti di madonne o del Cristo crocefisso, oppure la statuetta
di un Santo (generalmente S. Antonio da Padova, prodigo di miracoli, o S. Antonio abate, protettore degli animali domestici e da lavoro).
Sono testimonianze antiche di fede popolare che il tempo non ha cancellato. La riconoscenza per una grazia ricevuta ne ha suggerito spesso la costruzione; altre volte, invece, determinanti sono stati e il senso della paura e il bisogno di protezione lungo il tragitto ritenuto gravido di insidie e di pericoli. In ogni caso, i nostri antenati, carichi di fatica e di miseria, confidavano che la sacra immagine tenesse lontano dalle loro case e dai ripidi pendii dei loro campi il fulmine e la tempesta, e propiziasse, inoltre, un discreto raccolto.
Erano, quindi, opere legate alla vita dell'uomo e ognuno di noi, tornando non molto indietro nel tempo, frugando nella memoria, ha la sua "Maestà" alla quale ha confidato un pensiero.
Oggi, però, tabernacoli ed edicole, pilastrini e maestà appaiono prevalentemente come opere d'effetto, forse per il loro posizionamento in punti panoramici o suggestivi. La stessa corsa all'opera di ripristino delle vecchie maestà scomparse o dirute ha un profondo significato di lavorio culturale, che riteniamo sì molto importante, ma che non può restituirci le antiche emozioni che il nostro animo provava alla loro vista..
Per ricuperare il significato di tali opere e il messaggio che il committente ha voluto affidare ad esse occorre riacquisire quella dimensione del cammino connessa alla stessa costruzione della maestà, segni sistemati nei percorsi (mulattiere, sentieri) per non smarrire la strada, ma, soprattutto, segno, durante un viaggio, della presenza di Dio. Allora, da una sosta silenziosa di fronte ad una maestà, forse riusciremo a percepire chiaramente il messaggio di un mondo nel quale la religione costituiva l'elemento centrale della vita.

LE RITUALITA' STAGIONALI

Le ritualità stagionali in montagna sono intimamente collegate alle "Rogazioni". Rogazioni "maggiori"., che si svolgono nel giorno di S. Marco e Rogazioni "minori" (quelle che più interessano l'Alto Appennino Reggiano) al tempo dell'Ascensione. Le Rogazioni "minori" ripetono i "Robigalia" di età romana.
Esse seguono percorsi segnati da preesistenti indicazioni sacrali e sono intese a ripetute benedizioni sulla prosperità della campagna e sui segni stessi della religiosità locale.
E' interessante sottolineare come in vaste zone del nostro appennino le Rogazioni minori, per lo più cadenti al principio di maggio, finissero per assorbire le ritualità relative al giorno di S. Croce, che cade il 3 maggio. In questo giorno si allestiscono le crocette lignee da porsi a protezione dei campi.
In alcune zone sono ancora attuali le processioni del Cristo morto, il Venerdì Santo, accompagnate da simbologie del fuoco. Mentre la processione si svolge all'aperto, le cime delle alture circostanti brillano dei roghi accesi; lo stesso percorso è illuminato da roghi posti ai margini della strada ed ai crocicchi. Addirittura in taluni paesi, al termine del rito, si da fuoco ad un grosso falò, attraverso il quale saltano i giovani: che è quanto di più arcaico si può immaginare.
La contaminazione è evidente: ma è un modo primitivo di partecipare con simbologia lustrale al rito cristiano; e, forse più che contaminazione, è puro assorbimento.
Forse che la simbologia del fuoco non è stata assorbita dalle processioni notturne, proprie di determinate celebrazioni cristiane, mediante l'accensione di candele e di torce?
Tornando alle Rogazioni "minori", rinviarne alle pagine che seguono, in un apposito capitolo della storia di Civago, la descrizione di un interessante quanto singolare cerimonia che si teneva presso tutte le borgate del paese nella settimana che precedeva la festa dell'Ascensione.

I PELLEGRINAGGI E LA STRADA

La strada ed il viaggio sono i grandi protagonisti dell'epoca medievale. Dopo l'anno mille vengono ripristinati antichi tracciati, con l'apertura di nuovi e più celeri collegamenti. Uomini e merci si muovono con intensità. La mobilità dell'uomo medievale è incessante, per niente limitata dalla scarsità dei mezzi e dall'asperità dei luoghi.
Il pellegrino è sempre in viaggio. Per lui viaggiare è più che un abito di vita; è vivere la metafora del destino dell'uomo che "cammina" verso la morte per la salvezza.
Qual'era il grado di correlazione tra le genti dei nostri paesi e le ansie di spostarsi e di peregrinare propri dell'epoca medievale?
Narrano le fonti che ancor prima dell'anno mille torme di pellegrini, provenienti dalle valli del Secchia e del Dolo, diretti al celebre Santuario di S. Pellegrino, percorrevano la Via delle Forbici, sino all'altezza dell'odierna Civago, per poi piegare verso l'Ospizio di S. Geminiano, da dove raggiungevano il Santuario, dopo aver valicato il Passo delle Radici.
Quest'itinerario non veniva seguito da coloro che dimoravano in prossimità del crinale. Le popolazioni di Ligonchio e di Piolo, ad esempio, il crinale lo percorrevano tutto con una marcia di 7 ore, toccando i passi di Pradarena, delle Forbici, e delle Radici.
Per tali spostamenti veniva privilegiato, ovviamente, il periodo estivo. La gente dell'Alta Valle del Dolo, infatti, solevano portarsi a S. Pellegrino nei mesi di luglio e di agosto. L'11 agosto, giorno in cui ricorre la festa di S. Lorenzo, gli abitanti dell'Alta Valle del Dolo (vedi anche Civago) si recavano a S. Pellegrino in forma ufficiale, con tanto di sacerdote e di appartenenti alle Confraternite.
Un altro Santuario che le popolazioni dell'Alto Appennino Reggiano solevano raggiungere in pellegrinaggio era situato a Pietravolta. Oggetto di venerazione era un quadro della Madonna cosiddetta di Pietravolta, dal nome della località dove il Santuario era ubicato. Il pellegrinaggio ufficiale a Pietravolta si svolgeva nella prima domenica di maggio.

IL TEATRO POPOLARE

LO SPETTACOLO DEL "MAGGIO" NELLA MONTAGNA REGGIANA

Tra le forme teatrali primitive, che ancora da noi hanno formato oggetto di curiosità ed attenzione da parte degli studiosi, è da annoverare, senza alcun dubbio, la celebrazione dei "Maggi". Questi spettacoli, che riconducono indietro di parecchi secoli e che ferino rivivere con l'ingenua mentalità dei celebranti l'epoca dei poemi cavallereschi, hanno indubbiamente una tradizione e ritornano di attualità specialmente in questi ultimi tempi in cui si cerca di risuscitare quelli che furono i costumi e le abitudini di un tempo. Il suo carattere primitivo è dato principalmente da un'area campestre, con l'immancabile cornice di fronzuti castagni e di pubblico vario e multiforme, partecipe e interessatissimo allo spettacolo.
La quasi totalità dei "Maggi", che vengono rappresentati nella nostra montagna e nelle vicine vallate del Modenese e della Garfagnana, traggono origine da episodi tolti dall'Orlando Innamorato, dall'Orlando Furioso, dalla Gerusalemme Liberata, dai Reali di Francia, dal Guerin Meschino e da altre composizioni del genere e vengono adattati o ridotti dai cosiddetti "Compositori del Maggio", che tante volte sono anche i "suggeritori" durante lo spettacolo.
Di questi compositori, parecchi ne annovera la montagna reggiana ed i testi vengono tramandati di padre in figlio, di generazione in generazione. Costoro, come del resto gli attori o i "maggiaioli" o, ancor meglio i "maggerini", vivono nelle regioni più alte e più impervie dell'appennino reggiano. Le strofe di queste composizioni sono di regola formate da 4 ottonati a rima baciata, ma alle volte, vengono cantate anche in ottave.
Da strofa a strofa, poi, il canto è intramezzato da una nenia monotona che un violino ed una chitarra, od un clarino intonano dal principio alla fine senza mutarla mai. Tracciata così a grandi linee quella che è la struttura di questi teatri naturali, ci apprestiamo a descrivere qualcuno di questi spettacoli, senza diffonderci a narrare la trama dei vari episodi, ma cercando di farne ben comprendere le caratteristiche e gli sviluppi.
La celebrazione, che abitualmente ha luogo in uno spiazzo più o meno ampio, a seconda della località, si effettua in un'area a forma circolare, con pochi pali infissi nel terreno e congiunti con fili che delimitano grossolanamente l'area in cui si svolge lo spettacolo.
Seduti in terra in prima fila, a diretto contatto con i celebranti, ci sono i più accesi sostenitori, costituiti da parenti, amici e compaesani: "la claque". E a ridosso, su panche e sedie, i numerosissimi spettatori. Questa moltitudine, che non perde una strofa, applaude rumorosamente, facendo scricchiolare panche e sedie, mentre dalla sommità dei castagni, dove stanno appiccicati dei veri grappoli umani, si acclama a gran voce.
L'ampio cerchio, così delineato, è diviso in due campi: quasi sempre l'uno pagano e l'altro cristiano. Ora nell'uno, ora nell'altro luogo, si portano a svolgere la loro parte eroine e guerrieri. Agli estremi dei campi due cespugli con due tende raffigurano gli accampamenti. Due drappi colorati, piantati su bastoni infissi nel suolo: le bandiere. Cartelli indicatori, vergati senza tante pretese, informano: "campo pagano" o "campo cristiano". I re, dal portamento altero, impettiti e fieri della loro dignità, vestono a colori variopinti, in prevalenza rosso e giallo, con spalline in tinta colorate, sul capo una imponente corona di cartone e al fianco uno spadone di legno dai riflessi argentei, con un'elsa da tenere con due mani.
I guerrieri dei due campi, al seguito dei rispettivi comandanti, si differenziano per i colori delle giubbe.   Verde carico le une, giallo rossastro le altre.   Il pastore, che non manca mai in questi spettacoli, siede da un lato, al limite della saldatura dei due campi, appoggiandosi al malfermo bastone per cantare alcune strofe.
Da ultimo, quasi a rompere la monotonia dello spettacolo, stanno altri due personaggi immancabili nei "maggi": il buffone nella parte cristiana, tutto truccato e tinto, che non fa che motteggiare i guerrieri mussulmani, e che esce continuamente in cretinate che fanno sbellicare dalle risa gli spettatori. Poi c'è il "Diavolo", che agisce nell'altro campo. Questi è completamente vestito di color fuoco, porta un'acconciatura di pelo con le coma ed ha il volto annerito con polvere di carbone. H suo giungere è sempre preceduto dalle urla dei bambini, che in gran numero assistono allo spettacolo.
II pubblico dovrà far finta di non vedere il regista del "maggio". Infatti, seguendo l'azione, si ha modo di vedere anche il "suggeritore" che, con il manoscritto aperto in mano, si sposta continuamente dietro ai singoli personaggi per suggerire le prime battute della strofa, o per ricordare loro la sequenza dell'azione.   Sta scritto così nella tradizione orale
Questo è, in sintesi, il Teatro naturale dove si rappresenta il "maggio", con i suoi cavalieri coronati e le sue leggendarie eroine. Aggiungeremo che le rappresentazioni, che hanno sempre avuto inizio nelle prime ore del pomeriggio, terminano quasi sempre a sera inoltrata, senza la pausa di un minuto. E' interessante notare che al principio dello spettacolo, un "maggerino", con una fascia a tracolla, canta il prologo, come alla fine da l'addio, ringraziando in rima autorità e spettatori.
Durante l'azione si può vedere qualche inserviente aggirarsi tranquillamente tra i cantori e mescere loro vino in gran quantità per ristorare quelle gole arse dallo spettacolo interminabile. Dall'altra parte i guerrieri fumano beatamente sigarette o mezzi toscani, ma li posano quando, con rinnovato ardore, con la fronte madida di sudore, si alzano per cantare la loro parte o per azzuffarsi in singoli duelli con strepito di ferri legnosi e sbatacchiar di scudi di lamiere zincate.
Questi duelli, che avvengono tra coppie di 4/5 guerrieri degli opposti campi durano alcuni minuti e finiscono, quasi sempre, con l'uccisione simbolica di alcuni di essi, che il buffone si carica sulle spalle, in una caratteristica posizione a testa in giù, per portarli fuori scena.
Gli inservienti girano negli intervalli con dei bussolotti o con vassoi per raccogliere le offerte del pubblico che non si fa pregare, ma da largamente. Qualche hurrà viene lanciato dai protagonisti all'indirizzo di chi offre un fiasco di vino. Tanta è la serietà, l'ardore, l'ansia primitiva e sincera che i protagonisti mettono per la riuscita dello spettacolo che finiscono per trasmettere la loro commozione negli spettatori.
Il 7 dicembre 1997, per la prima volta nella storia di queste rappresentazioni, una recita del "Maggio" è approdata a Milano, al Teatro dell'Arte di Viale Alemagna.
Si è trattato del "Macbeth", un "maggio" di Romolo Fioroni, cantato da "maggerini" di Costabona, liberamente tratto dall'omonima tragedia, nell'ambito della Rassegna: "Shakespeare a Milano", organizzata dall'Assessorato alla Cultura del Comune lombardo.
Come abbiamo sottolineato, "questo rito" si svolge all'aperto con le caratteristiche sopra descritte.
Nell'occasione, invece, calate in una dimensione metropolitana, l'azione scenica e la declamazione cantata in versi costringe il pubblico ad una insolita disposizione circolare sul palco ed in platea.
Per concludere, da recenti ricerche si è appreso che il "Maggio" sia stato importato dalla Toscana in Emilia da lavoratori stagionali, quali pastori e taglialegna. Già il Pascoli, in una nota di commento ai "Canti di Castelvecchio" definì quei montanari che provenivano dall'Alto Appennino Reggiano: "alti, biondi, con occhi cerulei, veri longobardi, poveri e forti, immaginosi e poetici, grandi raccontatoti di fole a veglia".
Grandi raccontatoti di fatti straordinari dovettero essere stati, senz'altro, i nostri antenati se riuscirono ad esprimere, nei loro rustici e modesti luoghi, un così ricco impianto cultural-popolare quale veniva a proporsi la recitazione dei "Maggi".
Il "Maggio" ha antichissime origini e unisce l'aspetto pagano del Teatro greco a quello sacro delle Rappresentazioni medievali. E' qualcosa di più di una rappresentazione teatrale: è, in effetti, un rito e l'aspetto essenziale di tale espressione rituale sta nella lotta tra i due elementi principali che regolano la vita dell'uomo: il bene ed il male, e si risolve sempre con la sconfitta finale del secondo.

NOTE CONCLUSIVE DELLA PRIMA PARTE

Nel concludere questa prima parte della nostra "Ricerca", dove ci siamo occupati dei vari aspetti che riguardano la natura dei tenitori dell'Alta Valle del Dolo, nonché delle abitudini, delle attività e degli interessi di quelle popolazioni, avvertiamo la necessità di completare le nostre osservazioni affrontando una tematica del tutto inedita e particolare: il fiume Dolo nel suo interessante percorso dalle sorgenti al fianco destro del fiume Po.
Il fiume Dolo - fiume e non torrente, avendo del fiume tutti i requisiti - nasce ai piedi del Monte Vecchio, in quella parte dell'Appennino Reggiano che confina con le creste appenniniche della provincia di Lucca, di Massa e di Modena.
Il percorso del nostro fiume segue in modo inequivocabile un andamento rettilineo e parallelo alla linea di confine della provincia di Modena, disegnando una profonda vallata che, senza subire deviazioni, raggiunge la piana di Cerredolo. Il Dolo prosegue, poi, il suo corso sfiorando sul lato sinistro le città di Sassuolo e di Modena, per proseguire verso il Po, appena sotto la città di Manto va.
Il Dolo accoglie due importanti corsi d'acqua lungo la sua discesa verso il Po: uno sul lato destro con il torrente Dragone, che nasce nel modenese ed entra nel nostro fiume prima di Cerredolo; l'altro sul lato sinistro con il fiume Secchia , che nasce sotto il Passo del Cerreto.
Il Secchia, dopo aver tagliato in diagonale tutto l'alto appennino reggiano, entra nel Dolo appena sotto Cerredolo. Se si tiene conto delle caratteristiche idrico-strutturali, è il Dolo il vero affluente del Po e non il Secchia.
Se per un istante immaginiamo il fiume Dolo senza l'inserimento del Secchia, possiamo tranquillamente affermare che il nostro fiume proseguirebbe il suo percorso rettilineo sino al Po, disegnando una vallata dai contorni così regolari da costituire una perfetta linea di confine tra le province di Reggio Emilia e di Modena.
Verso la fine del settecento Filippo Re, illustre studioso reggiano di Agronomia, durante una visita alle Terme di Quara, nell'attraversare il Dolo all'altezza di Castagnola, definisce questo corso d'acqua fiume e non torrente poiché conduce sempre acqua e grandi sassi (a memoria d'uomo non si ricorda che il Dolo sia mai andato in secca).
Filippo Re osserva, inoltre, che è pericoloso guadare il Dolo in quanto i suoi sassi ingannano sovente chi, inesperto, crede di poter indifferentemente posare il piede sicuro sopra taluno di essi; ed è per ciò che - secondo il nostro studioso - per queste sue caratteristiche il fiume si chiamò e si chiama tuttora "Dolo".