5 - Civago nella storia

CIVAGO - SUE ORIGINI

Civago è l'ultimo paese dell'estremo lembo appenninico nel territorio reggiano, prima di arrivare alla solitudine e al silenzio solenne del crinale dove svettano le cime del Cusna, del Prado, del Monte Vecchio, fino alla Cappellina del Passo delle Forbici. Civago ha assunto le caratteristiche di centro abitato in epoca abbastanza recente, raggiungendo il suo pieno sviluppo nei primi anni del '900. E' proprio di quegl'anni il periodo di massima espansione di questo paese che, con oltre 1000 abitanti, divenne una delle più popolose località dell'Alto Appennino Reggiano.
Civago sorse per iniziativa di alcuni pastori di Cazzano i quali, per loro comodità (vicinanza ai pascoli alpestri), scelsero di stabilirsi definitivamente nell'area attualmente occupata dal paese.
I problemi che essi dovettero risolvere furono, da un lato, il consolidamento delle fragili, primitive capanne per poter affrontare, con maggior conforto e sicurezza, i rigori delle stagioni invernali, dall'altro lato la costruzione di una Chiesa che li affrancasse dalla dipendenza della Pieve di Cazzano. Ben presto le capanne divennero delle solide case.
Per quanto, invece, concerne la Chiesa, pur essendo stata eretta con una certa celerità, furono necessari tempi molto lunghi prima che la stessa riuscisse ad ottenere la piena autonomia dalla Parrocchia di Gazzano.
La storia di un paese, quasi sempre coincide con la storia della sua Chiesa, tanto che i progressi e lo sviluppo del luogo di culto vanno di pari passo con lo sviluppo ed il progresso del paese.
In ricordo dell'Ospizio di S. Leonardo del Dolo, gli abitanti di Civago intitolarono a S. Leonardo la loro Chiesa e, quando i tempi apparvero maturi, essi rivolsero al Santo Padre una petizione per avere stabilmente un Cappellano. Il Papa Urbano VHI0 li accontentò con un "Breve" del 6 luglio 1626; a poco a poco ottennero l'esercizio delle diverse funzioni e Sacramenti: gli ultimi ad essere accordati furono il Precetto Pasquale e la celebrazione del Matrimonio. In tal modo la Chiesa di Civago da "Cappellania" passò a Parrocchia, sino a ricevere il "premio" della "Prevostura" nel 1905.
La Chiesa di Civago fu oggetto di frequenti incontri con i Vescovi della Curia Reggiana. Ciò a testimonianza dell'importanza che la Chiesa stessa aveva assunto, nonostante fosse di recente costituzione.
La prima visita la effettuò il Vescovo Coccapani nel 1626, visita che replicò nel 1636. H Vescovo raggiunse il paese a dorso di cavallo, essendo la località raggiungibile solo attraverso un'impervia, ripida e stretta mulattiera. La terza visita vide la venuta nel 1652, addirittura, del Cardinale Rinaldo D'este. Nel 1664 fu la volta di Mons. Marliani; nel 1679 giunse Mons. Bellincini, quindi Mons. Picenardi.


IPOTESI SULL'ORIGINE E SUL SIGNIFICATO DEL NOME "CIVAGO"

Sull'origine e sul significato del nome "Civago" siamo in grado di riportare, qui di seguito, i contenuti di due diverse ipotesi formulate da due studiosi del nostro Appennino: il Malagoli di Reggio Emilia ed il Gigli di Pavullo nel Frignano.

A) Ipotesi dello storico Malagoli
II Malagoli, nel suo Trattato: "Toponimi romani coloniali nel reggiano" afferma che alcuni nomi di paesi del reggiano con suffisso in "aco" o in "ago", di area celtica, vanno associati a nomi personali latini. Lo studioso cita espressamente Civago, facendolo derivare dal nome di persona latino "Caepius", come pure Cavriago dal nome "Curvelius".
Ma allora, se diamo un certo qua! fondamento a tale tesi, dobbiamo escludere che siano stati i pastori di Cazzano - fondatori del paese - a scegliere il nome "Civago". E' più verosimile supporre che il territorio su cui sorse tale località si chiamasse, già da molto prima, Civago. Caepius, con ogni probabilità, fu un legionario e poi un colono romano a cui, secondo il costume di Roma, era stato assegnato, dopo una campagna militare sostenuta e vinta con le genti del luogo, una parte cospicua dei luoghi di cui ci stiamo occupando.
Ma la storia, o il caso, o qualche altro strano evento hanno chiamato in causa "Caepius", un cittadino romano il quale, con ogni probabilità, fu il primo proprietario terriero dei nostri luoghi.

B) Ipotesi dello storico Lorenzo Gigli
Lo storico Lorenzo Gigli (nato nel Frignano nel 1685) nel suo "Vocabolario etimologico topografico e storico delle castelle, rocche, terre e ville della provincia del Frignano" afferma che, in antico, con l'accezione "Civago" non si voleva indicare un paese, bensì una larga estensione territoriale, più precisamente "un Distretto".
Riportiamo, qui di seguito, uno stralcio di quanto il Gigli sostiene in un importante capitolo della sua opera:
"Nel Distretto di Civago, territorio in cui si trovano alte montagne, vi era una grande torre erettavi da Pompeo Magno, dove il grande generale romano si era rifugiato a seguito delle sonore sconfitte inflittegli da Giulio Cesare. Dopo di lui si erano colassù ritirati Fabio Massimo e Cassie che pensarono di trovare rifugio in quei luoghi pressoché inaccessibili. Il Gigli riferisce che queste straordinarie notizie erano state riportate in due tavole di bronzo, rinvenute presso la suddetta torre e poi date in custodia alla nobile famiglia dei Principi MASSIMO di Roma.
Lo storico conclude che può ben anche credersi come assai verosimile che molti altri romani o in questa, o in varie altre occasioni, si ritirassero in quei tenitori.
Possiamo, quindi, tranquillamente concludere che la Torre dell'Amorotto, nell'epoca in cui l'Amorotto vi si era insediato, non altro era che l'ultima versione di un fortilizio che in precedenza era entrato nel più articolato complesso del Castello delle Scalelle. Andando ancor più a ritroso nel tempo, la torre - secondo le prove documentali rinvenute dal Gigli - era stata addirittura eretta e posseduta da personaggi che, con nostra grande meraviglia, rispondono ai nomi di Pompeo Magno, di Fabio Massimo e di Cassio.

ANDAMENTO DEMOGRAFICO DEL PAESE

Nell'anno 1615 fu effettuato un censimento su tutto il territorio della Podesteria di Minozzo.
Civago, già attivamente presente nella Comunità, contava allora 26 famiglie per un totale di 153 persone; forniva alla Podesteria 14 soldati e garantiva una produzione di biade da mangiare pari a 669 staie, nonché biade da semenza per 155 staie.
La peste bubbonica (di Manzoniana memoria), che colpì l'Italia settentrionale attorno alla primavera del 1631, interessò anche il territorio delle nostre montagne. Tardò a diffondersi nei paesi della Podesteria a causa del loro isolamento rispetto alle località di pianura. Tuttavia, a partire da una certa data, incominciarono a manifestarsi morti improvvise a Carù, a Cere, a Carniana, a Cervarolo e alla Govemara.
A causa di ciò fu decretata la sospensione di ogni commercio con le città ed arrivò il divieto, sia dalla parte del Duca di Modena, come dalla parte del Granduca di Toscana, di portarsi in maremma con le pecore.
Fra tutte le comunità provate dal contagio, la strage maggiore la subì il Gazzanese. Civago dovè contare ben 70 decessi, quasi la metà dell'intera popolazione. Fu una vera ecatombe. Ma con il sopraggiungere dell'autunno, quasi per incanto, la grande carneficina si arrestò.
Vigendo ancora l'impedimento della quarantena e con l'inverno oramai alle porte, i pastori si industriarono a passare l'Alpe clandestinamente.
Buona parte delle pecore della Podesteria (e quindi anche i "branchi" dei nostri antenati) ripararono in Garfagnana, e di lì nelle Maremme. Nel Minozzese il numero degli ovini ammontava a 2.450 capi.
Sebbene manchino dati per accertare la mortalità dovuta ad altre calamità, come il colera di fine 800, si può affermare senza ombra di dubbio che la peste del 1631 è stata il flagello più micidiale che, per quanto si sappia, si sia riversato sopra le nostre popolazioni.
Lasciata la peste alle spalle, l'andamento demografico tomo a segnare positivamente lo sviluppo della Comunità civaghina. Dai 153 abitanti contati nel 1615 si passò alle 324 unità registrate nel 1724; il numero degli abitanti, che nel 1829 aveva superato quota 500, raggiunse il massimo storico nei primi anni del 900 con oltre 1.000 persone.

STATO DELLE ATTIVITÀ' ECONOMICHE DEL PAESE

Agli albori dell'800, Filippo Re, agronomo di chiara fama del Ducato di Reggio Emilia, effettuò un viaggio "Teocriteo" attraverso le nostre montagne che gli permise di annotare, in una approfondita relazione, lo stato delle attività agresti praticate nell'Alta Valle del Dolo.
Interessante e curiosa l'annotazione riferita alla situazione che lo studioso ebbe modo di rilevare in quel di Civago. Egli apprende che il paese, con i suoi 418 abitanti, trae il suo maggior prodotto dalle castagne: circa 500 staie all'anno. Mediamente, ogni abitante di Civago poteva contare su circa 70 kg. di questo prezioso frutto autunnale.
L'agronomo aveva notato che i Civaghini fertilizzavano i loro campi levando le cotiche (zolle) dal terreno per ammassarle in tanti mucchi a cui veniva dato fuoco. A combustione avvenuta sotterravano con le zappe la terra bruciata. Essi ricavavano così dalle scandelle (una specie di orzo che matura in meno di 2 mesi) e segale, non seminando frumento se non marzuolo, sei chicchi per ogni seme. Una buona resa, se la si confronta al rendimento dei terreni delle comunità confinanti.
Ma la fonte di reddito più significativa, in quei tempi, era rappresentata dal!'antichissima pratica della pastorizia.
Come già affermato in altra parte del racconto, Civago fu fondata da alcuni pastori di Cazzano i quali, spinti dalla necessità, furono costretti ad andare a cercare lontano dal paese d'origine nuovi pascoli per le loro greggi. I nostri antenati (e successivamente i loro discendenti) prestavano tale loro attività per circa sette mesi all'anno nei nostri luoghi e per i restanti cinque nelle maremme o nella bassa padana.
Il luogo di svernamento più abituale era la maremma toscana. Da quando, però, per intercessione del Duca, si aprì il varco del mantovano, data la minore difficoltà che presentava il tragitto, una parte dei nostri pastori si infilò verso la pianura del Po. L'arrivo dalla maremma o dalla bassa padana, se non intervenivano ragioni speciali, era piuttosto tardivo. Infatti, le zone pascolative, non solo dovevano essere sgombre di neve, ma già sufficientemente ammantate di erbe.
Non ci doveva più essere la minaccia di nevicate da mettere il pastore nel peggior imbroglio d'avere a nutrire una belante greggia senza provviste di foraggio. Sono in molti a ricordare come le non tante rare nevicate di fine marzo mettessero in serie difficoltà le avanguardie dei nostri pastori appena rientrate dai luoghi di svernamento.
Iniziavano la stagione portando le greggi in prossimità delle prime macchie ove riappariva, coi bucaneve, l'erba nascente. Poi finalmente a maggio eccoli a dominare le altezze, a riprender possesso delle conche a due passi dalla neve che indugia oltre il solito, quando tutto sorride alla primavera incipiente ed il lenzuolo immacolato del Cusna accenna a squarciarsi qua e là.

Filippo Re conclude con queste acute osservazioni il suo viaggio agronomico nella montagna reggiana effettuato alla fine del '700.
Per quanto conceme l'attività agricola vera e propria egli rileva che la causa del tristo stato della coltivazione nei monti non è nella infeconda qualità dei terreni, e nella strane vicende dell'atmosfera ma piuttosto nella pigrizia alimentata dall'ozio, nell'eccessivo amore per le bevande alcoliche e nell'emigrazione.
Per quanto riguarda, invece, il problema dei pascoli egli sostiene che, malgrado la loro estensione in montagna, il foraggio scarseggiava. Ciò era dovuto, sempre a giudizio dell'agronomo, sia ad una insufficiente fienagione, sia all'incuria a cui i prati erano esposti.
Troppo ombreggiati, privi di argini e scoli che contenessero nella giusta misura la troppo rapida fuga dell'acqua verso il piano, non arricchiti da concimazioni adeguate.
Un'altra causa consisteva nell'uso di introdurre nei prati il bestiame troppo presto, quando l'erba era appena spuntata, con il risultato di renderli prematuramente sterili.
Con l'avvento dell'industrializzazione inizia il massiccio esodo dalle zone di montagna.
Le frazioni più piccole e lontane si spengono progressivamente. La popolazione incomincia ad accentrarsi nelle fasce territoriali economicamente più forti. Anche Civago vive questa drammatica situazione e va senz' altro annoverato, a partire dai primi del '900, tra i paesi in fase di progressivo, netto calo demografico.
Intanto vanno scomparendo nel paese, quasi del tutto, i mestieri e le attività tradizionali come i carbonai, gli scalpellini, i vetturini, i taglialegna, i pastori ecc.
A questa situazione viene ad accompagnarsi l'abbandono e la rovina di quei poveri impianti e manufatti paleoindustriali costituiti dai metati per l'essiccazione delle castagne, dai luoghi attrezzati per la produzione di calce viva e, soprattutto, dai caratteristici mulini ad acqua.
Il fenomeno è comunque di carattere generale e riguarda, come abbiamo detto, tutti i paesi di montagna.
Possiamo concludere osservando che l'emigrazione, se pure ha consentito un miglioramento delle condizioni economiche, ha tuttavia depauperato i borghi della montagna, intaccando la residua, indebolita compagine sociale; alla rapida scomparsa dei riferimenti storici della tradizione si sostituiscono, ormai, nuovi modelli di vita con, quindi, nuove prospettive per il futuro.

IL DUCA FRANCESCO V° IN CIVAGO

Pochi, anche tra gli studiosi di cose montanare, sanno che l'ultimo Duca di Modena, Francesco V°, fu una volta in Civago (ultimissima e lontanissima propaggine del suo Regno) e sul Passo delle Forbici.
La visita del Duca ebbe luogo il 27 agosto 1849 e, il Rettore della Chiesa di Civago di allora, Don Antonio Rossi, volle serbarne il ricordo nel libro principale del suo archivio.
Veramente Don Rossi non segnò la gradita e importante visita nel giorno in cui essa avvenne. Anzi, aspettò qualche anno a prendere la penna, ma quando la prese il suo animo doveva traboccare di riconoscenza per il Duca Che cosa era successo? Una cosa molto semplice. Allorché Francesco V° si trovò in Civago, alloggiato nella Canonica, alla sera dopo cena, tra un bicchiere e l'altro di aleatico, Don Rossi chiese al Duca che cedesse alla Parrocchia di Civago un appezzamento di terreno situato sulla sinistra del Dolo, in località che, ancora oggi, si chiama semplicemente "il Dolo" o "Case del Dolo". In questa località, nell'Alto Medio Evo, sorgeva, come è noto, "l'Ospizio di S. Leonardo del Dolo".
Dunque Don Rossi chiese quel fondo al Duca, il quale, trovandosi in quel momento di buon umore, glielo promise, invitando il Parroco a stendere regolare domanda all'Intendenza di Modena. E la promessa fu mantenuta tanto che, l'anno dopo, il 26 giugno 1850, Don Rossi si recò a Reggio Emilia e a Modena per assistere al Rogito che sanciva il grazioso dono fatto a "cotesta Chiesa di Civago della possessione del Dolo".
Fu dopo il ritorno da questo viaggio, che era costato a Don Rossi 30 Francesconi e 10 lire di Modena, che il buon prete prese gli appunti annotati a suo tempo e li segnò sul libro più importante e cioè sul libro dei battezzati, abbinando la notizia del lascito con quella della visita ducale.
Questa seconda parte è per noi più interessante perché contiene la descrizione del viaggio che il Duca fece, il giorno dopo il suo arrivo, sul Passo delle Forbici e sul Passo delle Radici. La nota fu scritta alla fine di giugno 1861. Segno che il Rettore aveva saltato un certo numero di pagine bianche e che poi, a poco a poco, riempì.
Riportiamo ora, con l'aggiunta di qualche chiarimento, il testo della nota che non è priva di qualche sgrammaticatura:
"il primo ricorso lo feci la sera delli 27 di agosto 1849 in occasione che Sua "Altezza Reale Francesco V° fu costì (sic!) da me a dormire con il Marchese Forni e Gere "e Pavolucci e Alcati e l'Ispettore dei boschi di Pavullo, ed altre persone. Nel giorno 28 "agosto lo accompagnai io e l'anziano Rettore di Cervarolo, Don Carlo Antonio Tellina ed "il Ricetore (sic!) di Civago, Angelo Galli, fino al suo bosco cosiddetto "Valle dei Porci" e "poi alla Lama Lite.
Angelo Galli doveva essere un Guardia boschi governativo, nativo di Cerreto, ma residente a Civago.
Il Duca, quindi, salì da Civago all'Abetina; Don Rossi non ci dice se andarono alla Segheria, ma certamente sì, giacché a quei tempi, passava da quelle parti la strada più agevole per salire alla Lama Lite.

La Lama Lite è la sella, alta 1760 metri, che congiunge la  dorsale   appenninica  propriamente  detta  alla  catena  del  Monte   Cusna.  Ed  è meritatamente  famosa per essere  stata scelta,  nell'anno  1928, a sede  del Rifugio  "Cesare Battisti",  a cui fu pronosticato, meritatamente,   un grande avvenire.
Mi preme ricordare i primi gestori del Rifugio "Cesare Battisti": essi furono due giovani coniugi di Civago, belli di aspetto e di mente, Arturo Cecchini e Lucia Fioravanti.
Tornando a Don Rossi, il testo della sua nota così prosegue:
"allora il Rettore di Cervarolo, essendo affatto stanco perché aveva percorso tutta la "strada a piedi e perché di anni 78, il Principe diede 3 svanziche ad un giovane della "Romita, cioè a Luigi del fu Celeste Romiti che lo riaccompagnasse verso casa. Ed io e il "Ricetore lo accompagnassimo (il Principe) ed andassimo a desinare alla fonte di Sasso "Fratto, ove comincia il fiume Dolo.
Giunti alla sella di Lama Lite, la compagnia si divise, n Rettore di Cervarolo, accompagnato da Luigi Romiti scese a Cervarolo, passando per Vallestrina e il Duca, con gli altri, si recò alla fonte di Sasso Fratto. Qui Don Rossi non è stato preciso. Infatti la fonte di Sasso Fratto è sopra la "Sega", alla sinistra dello sprone di Monte Vecchio. Ma l'aggiunta che il Rettore fa, "ove comincia il fiume" fa sospettare, invece, che siano andati "al fontanone" o ai "fontanacci", ossia alla sorgente del Torlo. Sorgente abbondantissima e fredda, che si vede anche dal basso per una bianca cascatella. Qui dunque fecero colazione. Ma riprendiamo con la descrizione di Don Rossi:

"Dopo si andiede alla Marinella e poscia al Col del Pennato. E con 7 cavalli sempre, "poscia, andassimo ("sic!) alle Forbici ove si fermassimo un'ora e si fece il nome del "Principe in un foggio dall'Ispettore di Pavullo e colà venne ad incontrarlo il Rettore di "Massa e di Sasso Rosso, certo Bertolani.
Dalla Fonte di Sasso Fratto il Duca salì alla Marinella. Questo nome, che in certe carte antiche è dato come "Alpe Marina" e anche "Alpe Mattina", è il crinale che dopo Monte Vecchio scende alla Forbici. E' propriamente quella parte che sovrasta il "Lago delle Ragazze", prima degli "Scaloni". Dopo questo si ha il Colle del Pennato.
Da quanto detto si desume che la comitiva salì sul crinale, lasciando sulla sinistra il Lago delle Ragazze e poi continuò per vetta, sino al Passo delle Forbici.
E' una escursione di insuperabile bellezza. Sì ha sotto gli occhi tutta la valle della Garfagnana, con sullo sfondo le guglie dentate ed accidentate delle Alpi Apuane.
Sulle Forbici venne incontro al Duca Don Vincenzo Bertolani, Parroco di Massa. La comitiva si trattenne lì un'ora, durante la quale l'ispettore dei boschi di Pavullo incise il nome del Principe sul tronco di un faggio. Ma leggiamo il testo di Don Rossi:

"Poscia si passò avanti e si andiede tutti insieme sulla cima del Monte Giovarello, "ove si fermassimo per un quarto d'ora, poscia si calò a man destra e si andiede allo "stradello, ed indi si andò verso le Radici, ove ci raggiunse Don Pellegrino Montelli di "Asta, con "Petizione al Principe".
Dalle Forbici alla vetta del Giovarello la distanza è di circa un quarto d'ora di salita, ripida assai, per cui è da credere che non tutti l'abbiano fatta, ma probabilmente qualcuno, con i cavalli, sarà andato avanti ad aspettare gli altri nello stradello. Fino a qualche decennio fa così si chiamava una via che andava ai laghi di Cella e poi entrava nella rotabile. Nel 1849 questa era appena tracciata, ma vi si passava già bene con bestie da soma. Don Rossi così prosegue:
"Poscia stradafacendo incontrassimo l'Arciprete di Cazzano, Don Saverio Rondini, "con il Rettore di Fontanaluccia, Don Giuseppe Bianchi e lo accompagnassimo sino alle "Radici, strada crociata che va a S. Pellegrino, ove da cavallo il Duca mi diede un bacio e ci "dessimo l'addio ed esso con gli altri andiede verso le fontanine e noi a Civago. Firmato: "Don Antonio Rossi lì 29 giugno 1850 in Civago.
Mentre , dunque, la comitiva andava sullo stradello verso le Radici, dopo il Parroco d'Asta arrivarono quelli di altri due paesi: Gazzano e Fontanaluccia. Si vede che la notizia della presenza del Duca si era sparsa nei villaggi dei due versanti ed i Parroci accorrevano sia per portare omaggio al loro Sovrano, sia per chiedere qualche favore. L'occasione era veramente eccezionale, tanto eccezionale che non tornò mai più. Potevano, una volta tanto, avvicinare il Duca, senza le noiose e lunghe pratiche che erano necessarie a Modena. Don Rossi non ci dice se presentarono petizioni.
La comitiva andò alle Radici, dove ancora non esisteva né albergo, né locanda, ma solo un piccolo sentiero che conduceva alla Via Vandelli, nella località dove, poi, sorse il capannone, fabbricato che serviva agli uomini che lavoravano alla strada. E' probabile che Don Rossi si sia congedato dal Duca proprio sul Passo delle Radici, dove c'è un incrocio di strade: una che scende in Civago, un'altra che va a S. Pellegrino, una terza, infine, che conduce a Piadelagotti. Si erano tenuti buona compagnia quei Signori, liberi da ogni etichetta di corte, tanto che il Duca, al momento del congedo, diede un bacio a Don Rossi, il quale se ne ricordò sinché visse.
Quando, riempite le pagine bianche che aveva saltato nel suo libro parrocchiale, Don Rossi si ritrovò la pagina scritta 11 anni prima, era l'8 giugno 1861 ed il Regno d'Italia era stato solennemente proclamato e si andava sempre più consolidando.
Che cosa avrà pensato Don Rossi, rileggendo quella pagina che gli ricordava l'episodio più bello della sua vita? Avrà egli immaginato che l'esilio del suo Duca era questa volta definitivo? Forse no. Forse morì con la segreta convinzione che quel nuovo ordine di cose non fosse stabile. Forse il lascito ottenuto su "al Dolo" e il bacio ricevuto sul Passo delle Radici continuò ad alimentare nel suo animo, insieme con la riconoscenza, anche il rimpianto per un mondo che non doveva tornare mai più.
siamo grati a Don Rossi per averci lasciato il ricordo di questo viaggio di Francesco V° in Civago e sulle Forbici, ma vorremmo sapere qualcosa di più, per esempio, su come il Duca arrivò in paese e quale fu lo scopo della sua visita.
Di questo viaggio, che pure durò 4 giorni, non fa parola lo storico del Duca Bajarok; neppure all'archivio di Modena ne esistono tracce. Il "Messaggere" di Modena ci fa sapere che il 24 agosto il Duca era in villeggiatura a Pavullo e che vi ritornò il giorno 30. E' in questo intervallo che avvenne la sua visita nella nostra montagna. Con ogni probabilità il Duca salì a Bari gazze e di lì per la Vandelli andò alla Selva di S. Maria, quindi a Piandelagotti e, infine, a Civago.
Non passò certamente da Fontanaluccia, né vi salì da Toano, perché, in tal caso, i Parroci di Gazzano e di Fontanaluccia non sarebbero corsi sull'Alpe per rendere omaggio al Principe. Ma per quale motivo egli fece questo viaggio? Si, certamente, vi sarà stato il desiderio di vedere la sua tenuta dell'Abetina e quello di fare una gita in alta montagna. Ma non è improbabile che il viaggio avesse anche un altro scopo. Non dimentichiamo che i tempi erano grossi, che le idee di libertà serpeggiavano ovunque e facevano proseliti anche in montagna tra le famiglie dei maggiori possidenti.
D'altra parte le popolazioni anelavano a maggiori comunicazioni per incrementare i rapporti commerciali. La parentesi del 1848 era chiusa, è vero, ma poteva riaprirsi da un momento all'altro. Bisognava, dunque, cercare di assicurarsi la fedeltà delle popolazioni, bisognava aiutarle nei desideri legittimi. Nel caso nostro vi era un problema veramente importante che doveva richiamare tutta l'attenzione del Duca: le comunicazioni di Modena con le terre della Garfagnana.
I lavori della strada delle Radici, cominciati nel 1839, erano stati sospesi nei primi anni da Francesco V°, ma le vicende del 1849 avevano persuaso il Duca che qualche cosa bisognava fare per conservare la fedeltà delle popolazioni. Questo lavoro era, del resto, troppo necessario e da tutti reclamato, tanto che i lavori furono ripresi con ardore nel 1859, l'anno in cui nasceva il Regno d'Italia.
Questa visita del Duca nel nostro appennino lasciò, com'è naturale, un durevole ricordo. Il Prof. Monti riuscì a cogliere qualche aneddoto al riguardo dalla viva voce dei vecchi civaghini negli anni '30, quando egli era solito frequentare Civago con una certa assiduità. 11 Monti fu incuriosito da due episodi che accaddero proprio quando Francesco V° si trovò in Civago. Un certo Paolo Gaspari, pover'uomo, ma grande fumatore, andava dicendo: "se avessi una teggia di tabacco quanto vorrei fumare!" Lo udì Don Rossi, il quale lo chiamò e gli disse: volete proprio levarvi la voglia di fumare? Certo che sì, sig. Rettore. Ebbene, trovatevi domani mattina alla Maestà delle Case di Civago e, mentre il Duca passerà, chiedetegli l'elemosina. Ma badate bene di dirgli così: Eccellenza, Dio vi dia il buon giorno e lunga vita. Fate l'elemosina a questo povero cieco. Così fece. Il Duca, udita la richiesta, si rivolse a Don Rossi, il quale confermò con il capo il bisogno di quell'uomo. E il Sovrano diede una moneta d'oro. Un altro curioso episodio avvenne quando Francesco V° si trovò alla fontana di Sasso Fratto, nei cui pressi sostava una pastorella. Questa, poi, finche visse - e morì molto vecchia - raccontò sempre che il Duca, bevuto che ebbe, esclamò"acqua sublime, acqua soave". E aveva ragione.

FERDINANDO DI LORENA IN CIVAGO

Sempre in tema di viaggi, dalle carte del Prof. Monti, abbiamo potuto apprendere che un altro Principe passò da Civago.
Anche questa notizia è fornita dal parroco di Civago Don Rossi, il quale la lasciò scritta su un foglio di guardia in fine di un altro libro dei battezzati che. però, non fu iniziato da lui, ma dal suo successore, Don Gaspare Dionigi, nel 1867.
Si tratta di una visita di passaggio di Ferdinando di Lorena. figlio del Gran Duca di Toscana: Leopoldo 111°. Ma ecco la notizia:
"Passò da Civago il Principe ereditario, figlio del Gran Duca di Toscana e venne in "Canonica, dove lo favorii con un fiasco di vino aleatico ed aveva con seco 13 persone ed "11 cavalli. Fra questi vi era un certo Ispettore Turchi di Castelnuovo Garfagnana. Giunse "costì alle 4 di dopo pranzo, venendo da Frassinoro e partì di costì dopo le 5. Passò l'Alpe "per Col lungo con 3 guardia-boschi e cioè: "Giandomenico Ferretti, Angelo Galli ed Anselmo Francesconi,
"Teste Don Antonio Rossi, Parroco".