Il traforo della torre

Il traforo della torre: i lavori iniziarono nel 1953; squadre di sei persone per due turni
di otto ore; maestranze locali; il ricordo di Virginio Merciadri e Ferruccio Verdi.

di Remo Secchi

L’impossibilità di avere agevoli vie di comunicazione con la pianura reggiana e modenese da
una parte e con la Toscana dall’altra è da sempre l’ostacolo maggiore col quale deve fare i
conti chi vive nell’alto Appennino.
1954: l’apertura della galleria della Torre dell’Amorotto. Spuntano sorridenti i volti di Armando Verdi, Presildo Ghini e Sergio Gigli che finalmente vedono Civago (foto Nicodemo Merciadri, archivio Arcero Secchi).
Probabilmente, se la nostra montagna non fosse stata così "scomoda" da raggiungere, non avrebbe mantenuto quelle caratteristiche che oggi fanno sì che una buona parte del suo territorio si trasformi in parco nazionale, ma è altrettanto vero che questa situazione costringe da generazioni i montanari a quella costante emigrazione che la storia ci racconta. In effetti, a parte vagheggiati trafori verso la oscana in territorio reggiano, o improbabili prolungamenti dell’autostrada del Brennero in quello modenese, per anni non si è mai pensato granché per rendere più veloce il trasferimento dai monti e limitare il continuo esodo della nostra gente. Oggi, dopo le modifiche apportate alla statale 63, dalle quali la zona di Castelnovo Monti ha tratto sicuramente giovamento, diventa importante migliorare al più presto la viabilità anche nel resto della montagna, per evitare il rischio che possa rimanere ancora più isolata. Del resto, l’ultima opera di un certo rilievo effettuata sulle strade "secondarie" dell’Appennino reggiano risale esattamente a mezzo secolo fa.
La galleria e la torre andando verso Civago (foto Willer Barbieri)
Fu infatti nel 1953 che iniziarono i lavori per la costruzione della galleria della Torre dell’Amorotto, attraverso la quale la strada raggiunse il paese di Civago, che non a caso proprio da quel momento ebbe un notevole sviluppo turistico. Quando iniziarono i lavori per effettuare il traforo del costone roccioso, sul quale si erge la secolare Torre dell’Amorotto, era già in atto, da parte della ditta Ruffini, la costruzione della strada che sale da Villa Minozzo. Il tracciato, che fino a quel punto aveva attraversato campi e boschi, passando sul crinale, arrivato al "Trincerone" doveva fiancheggiare il monte Ravino, il cui terreno roccioso obbligava gli operai addetti ai lavori (in gran parte del luogo) a fare largo uso di mine, che venivano fatte esplodere per "scavare" la strada su quelle pareti scoscese. Anche la ditta Benassi, incaricata di fare il traforo, che venne effettuato soltanto dal versante di Villa Minozzo, utilizzava maestranze locali, e questo permise a molti montanari di rimandare per un po’ di tempo l’abbandono della propria terra in cerca di lavoro.
La targa posta dall'Amm. Provinciale nel 1985. (E' anche avendo memoria delle cose passate che si può guardare con più serenità alle attuali venture - Ero Paterlini, ingegnere capo della provincia di Reggio dal 1963 al 1983)
Tra quanti lavorarono alla galleria abbiamo rintracciato Virginio Merciadri, allora ventenne, e Ferruccio Verdi, che all’epoca aveva già una trentina d’anni. Grazie alla loro testimonianza abbiamo attinto notizie riguardanti i lavori. Ferruccio ricorda che si lavorava in squadre formate da sei persone, in turni avvicendati di 8 ore. La prima squadra, di cui lui stesso faceva parte, lavorava dalle 4 a mezzogiorno, mentre il turno della seconda andava dalle 12 alle 20. Ogni squadra era formata da due minatori e da quattro manovali il cui compito principale era trasportare all’esterno sassi e detriti provocati dall’esplosione.

Naturalmente, mentre i minatori avanzavano all’interno della montagna, di pari passo alle loro spalle si provvedeva a predisporre un’armatura e a bloccare con gettate di cemento la volta della galleria. L’armatura era fatta ad arco, con apposite centine nelle quali i listelli venivano inseriti partendo dal basso, sia da una parte che dall’altra, mano a mano che si saliva con il cemento, che veniva continuamentre vibrato. Arrivati al centro della volta, si chiudeva l’arco con gli ultimi listelli, e usando un badile dal manico molto corto si buttava il cemento da sopra. Per permettere quest’ultima operazione, lo "scasso" nella roccia era stato fatto appositamente più alto. Il foro nella montagna, molto inferiore come dimensioni rispetto a quella che poi sarebbe stata l’apertura della galleria, era stato praticato a una certa altezza dal livello del fondo stradale, proprio per permettere ai carpentieri di preparare l’armatura nella parte alta della galleria. In questo modo, al momento di sbucare dall’altra parte la volta del tunnel sarebbe già stata terminata. A differenza dei minatori, i carpentieri e gli altri operai lavoravano "a giornata", ma le ore lavorate erano sempre più delle normali otto. Virginio, che svolgeva a mansione di manovale, ricorda che generalmente proprio quando era ormai ora di andare a asa veniva dato l’ordine di preparare il calcestruzzo per un’ultima gettata.
Ferruccio Verdi
I lavori per effettuare quella prima apertura iniziarono nel marzo del 1954 e terminarono alla fine di giugno dello stesso anno. Quel giorno, ricorda Virginio, tutti andarono a tïapâr la bàla a Civago. Naturalmente, i lavori per trasformare quella prima apertura nella galleria che oggi vediamo furono ancora lunghi. Si dovette infatti continuare a sbancare il terreno roccioso fino al livello del fondo stradale, sempre facendo uso delle mine che però, grazie a infiltrazioni d’acqua presenti in quella zona, non provocavano molta polvere. Ferruccio Verdi, che era anche un esperto muratore, continuò a lavorare alla galleria fino al 1957, anno di conclusione dei lavori. Virginio, invece, che aveva un contratto che veniva confermato quindicinalmente, a seconda della necessità di manodopera, nel gennaio del ’56 decise di emigrare in Belgio, seguendo l’esempio di molti altri montanari della zona che come lui avevano lavorato in quel cantiere. Di quel periodo ricorda ancora la fatica, l’impegno con cui lavorava per garantirsi la riconferma, sempre avvenuta, e le 51mila lire che costituivano la sua paga mensile, compresi assegni familiari e ore straordinarie.
Virginio Merciadri
Ma c’è un altro ricordo che affiora nella sua mente pensando a quei giorni: sono le romantiche passeggiate per riaccompagnare per un tratto di strada quella ragazza che durante la pausa di mezzogiorno saliva fin lassù a portare il pranzo al papà. E’ facile intuire che quel dolce ricordo abbia accompagnato Virginio per molto tempo, mentre a mille chilometri di distanza scendeva nelle miniere di carbone del Belgio. Ma questa è un’altra storia...

(apparso su Tuttomontagna n. 115, agosto 2005 e segnalatoci da Claudio Gaspari)