Ricerca di Enrico Cafari Ricerca di Enrico Cafari

1 - Introduzione

INTRODUZIONE

La principale ragione, per la quale mi sono accinto a stendere queste note, è stata quella di raccontare le vicende del bosco e della gente di montagna di un suggestivo territorio dell'Appennino Reggiano:

l'Alta Valle del Dolo.
Nella prima parte di questo lavoro mi sono occupato delle origini di tale territorio, della sua natura, della vita e della storia dei suoi abitanti; nella seconda parte la mia attenzione si è rivolta alla storia ed alle vicende di una piccola, ridente località posta agli estremi confini di questa valle: CIVAGO.
La scelta di Civago ha obbedito ad una duplice esigenza: la prima si riferisce a certe sue caratteristiche che lo rendono affine agli altri paesi dell'Alta Val Dolo, la seconda riguarda la sua particolare ubicazione nel punto estremo della Valle, ubicazione che, per la sua vicinanza e, quindi, per i suoi stretti contatti con la Garfagnana, consentono al paese di proporsi come punto di sintesi e d'incontro di due tanto diverse quanto interessanti culture.
Civago, infatti, rappresenta da sempre la testimonianza più viva di come, nella sua gente, possono convivere, in piena sintonia ed armonia, costumanze toscane con abitudini e modi di vivere e di pensare caratteristici delle "genti lombarde", dalle quali gli abitanti del paese discendono.
Nella terza parte, infine, ho voluto ricordare, anche se un po' succintamente, una figura di grande spicco delle nostre contrade, un personaggio che ha dedicato tutta la sua vita a far conoscere e ad amare il nostro appennino: il Prof. Umberto Monti.

I PRIMI ABITANTI

Durante il "Pleistocene" (circa 12.000 anni fa) l'Alto Appennino Reggiano, e quindi l'intera valle del Dolo e del Secchia, era percorso da gruppi di cacciatori paleolitici.
La sopravvivenza di queste piccole comunità era affidata principalmente ad attività di caccia e raccolta derivata da una vita nomade. La loro presenza si riferisce al penultimo periodo glaciale, quando i ghiacciai si trovavano sulle cime dell'Appennino.
Gli insediamenti del Mesolitico (7/8 mila anni fa) sono quasi esclusivamente concentrati nell'alta montagna, in aree strategiche per la ricerca del cibo, presso i "passi", i laghi morenici ed i luoghi di passaggio e di sosta della selvaggina. Fra i più importanti siti si comprendono quelli ai passi della Comunella e di Lama Lite, dove gli scavi hanno messo alla luce interessanti reperti.
Con il neolitico (circa 3/5 mila anni fa) s'introduce una notevole differenziazione della presenza umana sul territorio, caratterizzandosi con una vita più sedentaria della popolazione dedita alla pratica dell'agricoltura.

La prima età del bronzo (circa 1800-1450 anni fa) è documentata dal ripostiglio d'asce bronzee a Monte del Gesso. Propaggini della cultura terramaricola sono state rinvenute a Castellarano. E' solo nella tarda età del Bronzo (circa 1100 - 900 avanti C.) che l'Appennino vede il sorgere di numerosi villaggi, piccoli e medi, tra Bismantova e Felina e, poco più tardi, nelle immediate vicinanze di Villa Minozzo.

TESTIMONIANZE ROMANE

Una testimonianza di un certo rilievo della presenza Romana nella montagna reggiana è rappresentata dalla necropoli della Gatta (Castelnuovo Monti). La montagna, in particolare l'alto Appennino, fu teatro per lungo tempo di una lotta molto impegnativa tra i Romani e le popolazioni autoctone dette "FRINIATES", che furono definitivamente sconfitte nel corso delle guerre Ligustine. La colonizzazione romana, inizialmente, si distribuisce nell'arco dei primi rilievi collinari, riscontrandosi spesso in corrispondenza di luoghi abitati già in epoche preistoriche e concentrandosi in prossimità dello sbocco delle valli nella pianura. In epoche successive i coloni romani si spingono verso l'alto, addirittura guadagnando il "crinale", per cercare passaggi e sbocchi verso la terra della vicina Etruria.
Altre interessanti testimonianze si ricavano dagli scritti di uno storico del "700", Lorenzo Gigli, il quale, nel suo "VOCABOLARIO ETIMOLOGICO TOPOGRAFICO E STORICO DELLE CASTELLE, ROCCHE, TERRE E VILLE DELLA PROVINCIA DEL FRIGNANO", afferma che con l'accezione "Civago", in antico, non si voleva indicare un "paese", bensì una larga estensione territoriale, quale un "Distretto", per meglio intenderci.
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio di quanto il Gigli afferma in un interessante capitolo della sua opera:
"nel Distretto di CIVAGO, territorio in cui si trovano alte montagne, vi era una grande torre erettavi da Pompeo Magno, dove il grande generale romano si era rifugiato a seguito delle sonore sconfitte inflittegli da Giulio Cesare. Dopo di lui si erano colassù ritirati Fabio Massimo e Cassie che pensarono di trovare rifugio in quei luoghi pressoché inaccessibili.
Il Gigli riferisce che queste straordinarie notizie erano contenute in due tavole di bronzo, rinvenute in quei luoghi e poi date in custodia alla famiglia dei Principi Massimo di Roma. Lo storico conclude che può ben anche credersi, come assai verosimile, che molti altri Romani o in questa, o in varie altre occasioni, si fossero ritirati in quei tenitori.
Si può, quindi, tranquillamente affermare che la "Torre dell'Amorotto", nell'epoca in cui l'Amorotto vi si era insediato, non altro era che l'ultima versione di un fortilizio che in precedenza fece parte del più articolato complesso del Castello delle Scalelle. Andando ancor più a ritroso nel tempo la torre, come già sopra specificato, era stata addirittura eretta e posseduta da personaggi che, con grande nostro stupore, rispondono ai nomi di Pompeo Magno, di Fabio Massimo e di Cassie.
Alla disgregazione e caduta dell'Impero Romano, fanno seguito i domini barbarici e le campagne militari bizantine che riportano l'autorità imperiale nella penisola, dopo la distruzione del Regno Gotico del 533. Pochi anni separano questa data dall'invasione dei Longobardi, nel 568, che segnerà un profondo e decisivo rivolgimento nella storia d'Italia e del nostro territorio.
Tra il VI0 ed il VII0 secolo il crinale ed i primi contrafforti dell'Appennino reggiano si articolano in una linea difensiva di confine tra Longobardi da un lato e Bizantini dall'altro. Il nostro territorio è tra questi e incomincia a risentire, sin da allora, degli effetti negativi dovuti a continue scorrerie e scontri tra i contendenti. E' il destino delle terre di confine!
Le prime testimonianze dell'insediamento storico nella montagna risalgono, infatti, a questo periodo. Alle tipiche caratteristiche rurali essi associano anche il ruolo d'avamposti di una colonizzazione. Il popolamento della collina e della montagna reggiana va ascritto, per la gran parte, all'espansione longobarda che si protrarrà sino alla metà del X° secolo. Pievi, monasteri, abbazie, non solo reggiane ma anche di tenitori vicini, iniziano a creare altri organismi curtensi, nonché una serie di microinsediamenti. Già nel 781 un presunto Diploma Carolino ci descrive i confini meridionali della Diocesi reggiana attestati sul crinale. La Chiesa estende ora la sua organizzazione ecclesiastica attraverso la costituzione delle Pievi. Il Diploma di Ottone 11° nel 960 segnala 11 Pievi nel collemonte: Albinea, Bibbiano, Bismantova, Castellarano, S. Polo, Paullo, Minozzo, Puianello, S. Valentino, S. Vitale di Verabolo, Toano. L'unità territoriale è suddivisa in pievi, Cappelle, Castelli e corti, spesso coincidenti. Il caposaldo di Canossa, costruito da Atto Adalberto nella prima metà del X° secolo, diventa un centro sistema difensivo a controllo delle vallate appenniniche e della pianura.
L'Appennino esercita un'importanza primaria nell'economia reggiana. La viabilità montana, spesso ricalcando antichi percorsi, assicura la regolarità dei traffici con la Toscana.
Una strada che in quei tempi aveva tali caratteristiche era la "Via delle Forbici".
Nei punti di più frequente passaggio, quali i valichi, od i ponti ed i guadi, si trovano gli "Ospedali" per l'assistenza ai viandanti ed ai pellegrini.
Uno dei primi "Ospedali" dell'Alto Appennino Reggiano fu quello che sorgeva in prossimità di un guado del fiume Dolo, a circa 3 Km. Dal Passo delle Forbici.
Ancora agli inizi dell'800 Filippo Re, nel corso di un suo viaggio agronomico nella montagna reggiana, così ci descrive la funzione di un Ospizio posto nell'Alto Appennino Reggiano:
"quello che lo rende interessante è l'asilo che è tenuto il Parroco a prestare agli smarriti pellegrini; perciò è obbligato a far suonare ogni sera, per un certo tratto di tempo la campana e a tenere acceso un fanale sulla torre".
Chiudiamo questo brevissimo "excursus" sulla storia del nostro Appannino nell'alto medioevo ricordando Matilde di Canossa, la cui figura s'impone tra i personaggi di quel tempo in tutta la sua grandezza per l'influenza e per la profonda illuminata saggezza con cui seppe gestire il suo vasto potere su gran parte delle nostre montagne.

LA VIA DELLE FORBICI

Fin dai tempi più antichi i tenitori dell'Alta Valle del Dolo erano attraversati da una via che collegava l'Alta Garfagnana con i paesi del reggiano.
Questa strada si staccava dalla Via Imperiale, in prossimità della Maestà di Campori in Garfagnana, attraversava il Rio Castiglione, seguiva per Castiglione di Garfagnana e, passando presso l'Ospizio di S. Maria della Buita, detto anche di S. Maria dell'Alpe, si portava al Passo delle Forbici.
Superato il valico, la Via delle Forbici si divideva in due rami: uno di minore importanza piegava verso il Passone per dirigersi alla volta di Minozzo e Bismantova, l'altro scendeva verso l'Ospizio di S. Leonardo al Dolo e, proseguendo per le Scalelle, toccava Gazzano; quindi passava per Quara e attraversava il Secchia al ponte di Cavallo (oggi Cavola).
Proseguiva, infine, sino a Reggio. Gli avanzi di una via romana, trovati a Quara, potrebbero benissimo essere messi in relazione con l'antichità di questa strada.
Non vi è dubbio che la Via delle Forbici, fin dai tempi più antichi, rappresentava il percorso più agevole per coloro che dalle terre del reggiano volessero recarsi in Lucchesia. Riportiamo, qui di seguito, due interessanti episodi legati alla storia della Strada delle Forbici.
Il primo, contenuto in un manoscritto custodito nell'Archivio del Comune di Modena, narra che:
"durante l'inverno 1306 - 1307 cadde molta neve sull'Appennino. La Via Bibulca, che collegava il versante appenninico modenese con la Garfagnana attraverso l'Alpe di S. Pellegrino, non essendo stata sgombrata, rimase chiusa al transito, con danno del commercio che, invece di svolgersi tra Lucca e Modena, s'intratteneva tra Lucca e Reggio Emilia, mediante la Via delle Forbici, la quale, grazie all'abnegazione degli abitanti della vallata, era stata aperta ed era costantemente mantenuta libera dalle nevi".
Il secondo episodio, che risale ad epoca ancor più remota, narra che nell'anno 1240 il Podestà Gerardo di Reggio Emilia dovette intervenire a favore di alcuni commercianti toscani di Fucecchio i quali, mentre percorrevano la strada che dal Passo delle Forbici li guidava verso il territorio reggiano, furono depredati di tutti i loro beni da un gruppo di loschi individui di Cazzano, Cervarolo, Novellano, Romanoro, Fontanaluccia, Febbio, Asta e Morsiano. Il luogo dell'aggressione era situato nelle immediate vicinanze dell'Ospizio di S. Leonardo al Dolo.
Il Podestà di Reggio Emilia tassò a favore dei toscani una somma da ripartire a carico dei Comuni e degli uomini responsabili della rapina. Parallelamente ordinò ai Comuni ed agli uomini citati di restituire agli abitanti di Fucecchio ciò di cui furono depredati durante il loro viaggio in territorio reggiano.
Questo episodio, contenuto nel "LIBER GROSSUS ANTIQUUS" (Raccolta di Regesti medievali del Comune di Reggio Emilia), evidenzia, con ampiezza di particolari, l'importanza che rivestiva in quei tempi lontani la strada delle Forbici per gli scambi commerciali tra le popolazioni toscane e quelle del versante reggiano.

SULLE TRACCE DI UNA STRADA PERDUTA

La Via delle Forbici cessò di svolgere la sua preziosa funzione di raccordo tra la Lucchesia ed il Reggiano quando alcune arterie delle province limitrofe, opportunamente ammodernate e ampliate, si sostituirono ad essa nello svolgimento di tale funzione.
La nostra strada, che ebbe la cattiva sorte di non essere passata attraverso tali trasformazioni, nel volgere di breve tempo cadde nel più completo abbandono.
Nel passato, quando l'abitato di Civago non era stato ancora raggiunto dalla strada asfaltata, quest'antico sentiero costituiva l'unica arteria attraverso la quale era assicurato il collegamento con la provincia di Lucca.
Quando il paese fu raggiunto dalla carrozzabile, la Via delle Forbici avrebbe potuto riacquistare il suo antico prestigio se fosse stato aperto il collegamento con la Garfagnana, attraverso il Valico del Passo delle Forbici.
Tale evento, purtroppo, non ebbe a verificarsi in quanto un autorevole personaggio politico della provincia di Modena si adoperò (e vi riuscì) affinché la nostra strada avesse il suo sbocco in Garfagnana, non tramite il Passo delle Forbici, ma attraverso un diverso percorso che, con l'utilizzo del Passo delle Radici, andava a privilegiare i flussi delle strade modenesi, a tutto scapito di quelle reggiane. Si trattò di un vero e proprio colpo di mano, ottenuto con l'apertura del tronco di strada Civago - Piandelagotti realizzato, tra lo stupore generale degli abitanti di Civago, in tempi brevissimi.
Con tale iniziativa, non venne meno unicamente la realizzazione della tanto vagheggiata Strada delle Forbici, ma venne anche a svanire per sempre la speranza che non si sarebbe mai più realizzata, per l'intero comprensorio dei bacini del Dolo e del Secchia, quella ripresa di carattere economico e culturale su cui tanto avevano contato tutti coloro che nel passato e in tempi più recenti si erano battuti per la STRADA DELLE FORBICI.

IL CASTELLO DELLE SCALELLE E LA TORRE DELL'AMQROTTO

II Castello delle Scalelle, che includeva quella costruzione a forma cilindrica, chiamata in seguito "Torre dell'Amorotto", era posto in un'indovinatissima posizione lungo la dirupata sponda sinistra del Dolo, fra Cazzano e l'Ospizio di S. Leonardo del Dolo, a circa 2 km. dall'odierna Civago.
Civago in quel tempo, pur non esistendo come paese, incominciava ad essere rappresentato da un piccolo concentrato di capanne estive, che costituivano rifugio e stazioni avanzate per i numerosi pastori di Cazzano, da sempre proiettati verso i pascoli alpini della valle sino agli estremi confini del crinale.
Tornando alle "Scalelle", fino a qualche tempo fa, e forse ancora oggi, un appezzamento di terreno appartenente alla prebenda parrocchiale di Cazzano, situato in quel posto, porta il nome di "Scalelle".
Il Castello ed il territorio circostante erano retti dalla nobile famiglia "Da Dallo", d'origine garfagnina, padrona anche di Piolo. Ghibellino e Lombardino Da Dallo, sul principio del XIV0 secolo, possedevano già il feudo delle "Scalelle", da cui dipendevano le Ville di Cazzano, Cervarolo, Novellano ed Asta.
Riteniamo che la funzione della Rocca fosse essenzialmente quella di sentinella avanzata, posta nel cuore dell'Alta Valle del Dolo, per vigilare il Passo delle Forbici, che metteva in comunicazione i tenitori reggiani con la Lucchesia.
Il nobile Domenico De Bretti, più noto col nome paterno di "Amorotto", lasciò, all'inizio del 1500, la Rocca avita di Carpineti (da cui la sua insigne famiglia proveniva), per scorazzare in lungo ed in largo attraverso i paesi dell'Alto Modenese e nel Reggiano orientale.
Rimane ancora oggi legato al suo nome quel rudere di Torre situata, come abbiamo dianzi affermato, sulla sponda sinistra del Dolo, nei pressi di Civago.
In effetti, l'Amorotto s'impossessò della Torre, ormai abbandonata dalla famiglia Da Dallo, verso la fine del 1400, periodo a partire dal quale il fortilizio assunse la denominazione di "Torre dell'Amorotto".
Il momento di massimo fulgore, per quest'originale "uomo d'arme", coincise con il tempo del dominio papale su Reggio Emilia, periodo che va dal 1513 al 1523.
I giudizi degli storici su tale personaggio sono abbastanza discordi; per alcuni fu un leggendario e sfortunato difensore dei tenitori appenninici dalle mire degli Estensi, per altri fu soltanto un bandito senza scrupoli, assetato di vendette e di sangue. Per noi fu un po' l'una e un po' l'altra cosa, fu senz'altro un individuo schiacciato da eventi e da responsabilità più grandi di lui.

A corredo di quanto abbiamo esposto, ed allo scopo di completare ed arricchire, per quanto sia possibile, la storia di questa singolare testimonianza della nostra Valle, si riporta, qui di seguito:
1 -  il testo di un'ispirata poesia del poeta e scrittore Umberto Monti dedicata alla Torre dell'Amorotto;
2 - copia di un disegno a "china", dove spicca la forma originaria della Torre dell'Amorotto (opera eseguita, prima del violento terremoto del 6/7 settembre 1920, da un valente pittore di Civago: Settimo Romiti);
3 - un'interessante "cronaca di viaggio" scritta dal Segretario del Vescovo Picenardi di Reggio Emilia, che fece visita alla Cappellania di Civago il 6 settembre 1707;
4 -  in fine un brevissimo racconto, tramandatoci sempre da Umberto Monti, su una fantasiosa storia riguardante poteri magici attribuiti, dalla credulità popolare, alla Torre dell'Amorotto.


TORRE DELL 'AMOROTTO

Torre, c'hai visto secoli di ferro,
e scompigli di sangue e di paura,
sui pinnacoli che ti diè natura
fosti rifugio al ladro ed allo sgherro.

Dalla tua Rocca non camoscio o verro
scrutavi, non colomba malsicura,
ma l'inerme viandante, e le tue mura
eran tomba per l'uomo, s'io non erro.

Passan gli uomini e gli anni e tu resisti
pur contro il vento ch 'urla tra l'aride forre
e nell'orror fierezza acquisti.

Né verdura né canto ti soccorre,
né nido sopra i tuoi ruderi tristi,
o sopra il Dolo abbandonata torre

UMBERTO MONTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIAGGIO A CIVAGO DEL VESCOVO PICENARDI (6.9.1707)

"Partendo da Gazzano verso Civago ci s'inoltra nelle viscere dell'estremo appennino attraverso dirupi scogliosi con precipizi da destare le vertigini ed è giocoforza affidarsi ciecamente alla pratica dei cavalli alpini; nel viaggio ci si affaccia la 'Torre dell'Amorotto", ormai in dissoluzione, ma nei secoli passati abbastanza formidabile e si dice costruita da Castruccio Castracani; occupata a suo tempo dal celebre "Amorotto", che le diede l'attuale suo nome.
II Vescovo vi passò senza inconvenienti, benché nel ritorno vi fu sorpreso da improvviso rovescio d'acqua.
(da "Appunti di viaggio" scritti dal Segretario del Vescovo Picenardi)
N.B.
Tra i personaggi storici che furono interessati, direttamente o indirettamente alla Torre dell'Amorotto dobbiamo segnalare:
1)  POMPEO MAGNO (lo storico Lorenzo Gigli riferisce che due tavole di bronzo rinvenute nei pressi della Torre attestano che la stessa fu eretta dal grande Generale Romano);
2)  le stesse tavolette attestano, altresì, che nella torre si rifugiarono anche altri 2 personaggi dell'antica Roma: FABIO MASSIMO e CASSIO;
3)  CASTRUCCIO  CASTRACANI  (Condottiero  Italiano  e  Signore  di  Lucca -1281/1328) vi sostò più volte;
4) LUDOVICO ARIOSTO (noto poeta Italiano e Governatore della Garfagnana per conto del Duca Alfonso D'Este) sostò più volte anch'egli nella Torre.



I TESORI DELLA TORRE DELL'AMOROTTO

Anche la Torre dell'Amorotto ha le sue leggende. Si è sempre parlato di un antico tesoro sepolto ai suoi piedi. Ma guai a chi avesse tentato di impossessarsene. Una volta, per scommessa, due baldi giovani di Civago s'incaponirono nell'impresa Fattosi buio profondo, con piccone e badile, incominciarono a scavare. Già credevano di essere a buon punto, allorché un'immensa fiammata bituminosa si sprigionò dalla buca, avvolgendoli in un fumo infernale e costringendoli ad una fuga pazzesca.
A lungo vagarono sui pendii circostanti, urlando e sperdendosi. Furono trovati il mattino dopo, tramortiti a terra , neri come il carbone e senza parola. Quando, qualche ora dopo, poterono esprimersi fecero capire che il diavolo li aveva assaliti, rimanendo alle loro calcagne tutta quella notte di tregenda.
Intorno alla Torre dell'Amorotto si favoleggia anche questo:
nelle notti di luna piena, quando la sottostante vallata sembra illuminata a giorno, e il fiume corre laggiù luccicando, come una fascia di mercurio, un caprone dalle forme gigantesche si aggira per quei ruderi.
Qualcuno afferma di averlo visto in varie occasioni e spiega che l'animale fa la guardia al famoso tesoro.



L'OSPIZIO DI SAN LEONARDO DEL DOLO

1 - Note storiche sull'Ospizio
II viaggio ha sempre richiesto la presenza di luoghi di ospitalità per viandanti e pellegrini, soprattutto in corrispondenza di valichi in alta montagna. Sin dall'Alto Medio Evo si era andata creando un'efficiente rete d'ospitalità viaria, al punto che l'ubicazione degli "Ospizi" ha consentito, in tempi recenti, di ricostruire i tracciati di antiche strade.
Meritano particolare rilievo "Ospedali" della montagna a servizio degli itinerari diretti ai valichi dell'appennino.
Un manoscritto dell'Archivio Vescovile di Reggio Emilia attesta che sul versante reggiano della strada delle Forbici, a circa 3 Km. dell'odierna Civago, sorgeva un Ospizio denominato "Ospizio di San Leonardo del Dolo".
Tale manoscritto attesta, altresì, che un Oratorio, annesso all'Ospizio, era stato consacrato prima dell'anno 1.191. L'Ospizio di San Leonardo sul fiume Dolo assicurava, quindi, una sosta lungo la Via che da Reggio Emilia conduceva a Lucca per il valico delle Forbici.
Il suddetto manoscritto riferisce, inoltre, che l'Ospizio da tempo antico accoglieva i viandanti ed i pellegrini d'ogni condizione che transitavano da quelle parti. Questi, per l'asprezza dell'alpe e per la grande distanza dai luoghi abitati, erano nell'Ospizio stesso alloggiati, rifocillati di pane e di vino, e confortati d'altre comodità. Il testo originale di questo brano - che riportiamo qui di seguito,

riesce, nel suo latino essenziale, a trasmetterci l'atmosfera e la magicità di quei tempi così ricchi di fascino e di mistero:
"...........Olim    in hospitali pauperum Sancti Leonardi de Gazano Reginensis Diocesis intra alpes, in loco dicto ad Dolum, iuxta viam per quam de civitate Reginensis ad civitatem Lucanam itur, sito, antiquitus etìam ab illius fundatione peregrini et alii cuiuscumque conditionis illac transeuntes, prò tempore consuevissent de necessitate, propter dictarum alpium asperitatem et longam ab hominum habitatione distantiam, hospitalitatis, necnon panis et vini ac aliis comodis refici et recreari............"
Va sottolineato, altresì, che il gestore dell'Ospizio doveva attenersi a delle precise regole di condotta che stabilivano, tra l'altro:
*    di fare l'elemosina ai pellegrini che continuassero il viaggio;
*    di rifocillare e alloggiare chi vi pernottava;
*    di suonare a lungo una campana ad un'ora di notte per richiamare qualche eventuale viandante sperduto;
*    di far celebrare, nell'Oratorio annesso all'Ospizio, una messa settimanale.

L'Ospizio di San Leonardo del Dolo fu per centinaia d'anni un prezioso punto di riferimento per coloro che percorrevano la Via delle Forbici in prossimità del valico.
L'Ospizio per varie cause, non ultima quella di liti continue tra i vari Rettori ed i responsabili delle Pievi dai quali l'Ospizio stesso dipendeva, cessò ogni sua funzione, con la conseguenza che, di lì a poco tempo, gli edifici, essendo stati lasciati nel più completo abbandono, finirono per crollare. Correva l'anno 1.442.
Dopo secoli di silenzio e d'oblio si tomo a parlare dell'Ospizio, o comunque delle terre annesse a quello che un tempo fu l'Ospedale di San Leonardo del Dolo, nell'agosto del 1.849. In quell'anno il Duca Francesco V° d'Este visitò Civago, alloggiando nella Canonica del paese. Il Rettore della Chiesa, don Antonio Rossi, la sera, dopo cena, tra un bicchiere e l'altro di Aleatico, chiese al Duca di cedere alla Chiesa di Civago un appezzamento di terreno situato sulla sinistra del Dolo, in località che, ancora oggi, si chiama semplicemente "il Dolo" o "Case del Dolo".
In questa località, come abbiamo già precisato, sorgeva l'Ospizio di San Leonardo del Dolo.
Il Duca, che doveva essere di buon umore, glielo promise e mantenne la promessa nell'anno successivo.
Oltre ad un grande appezzamento di terreno, il fondo comprendeva anche una costruzione in sasso nota ai più come la "Cà del pret", edificio eretto nei primi anni del "700" con i ruderi del vecchio "Ospedale".

2 - L'Ospizio oggi
Nell'anno 2004, l'Ospizio di San Leonardo del Dolo, grazie agli interventi del Parco del Gigante e del Comune di Villa Minozzo, è tornato a vivere la sua seconda vita su quella sponda del Dolo, ai piedi delle Forbici, dove sorgeva tanti secoli or sono. La ricostruzione e la riapertura dell'antico "Ospitale" di San Leonardo del Dolo (riapertura e ripristino ovviamente effettuati nell'ottica delle odierne esigenze) segnano una marcata inversione di tendenza rispetto ai lunghi momenti di abulia e d'indifferenza vissuti negli ultimi tempi dalle popolazioni dell'Alta Valle del Dolo.
Il fatto, poi, che i giovani gestori del nuovo Ospizio abbiano in programma il ripristino di quel tratto della Via delle Forbici che dal vicino guado del Dolo conduce al valico, è da considerarsi un'iniziativa di particolare interesse e tale da meritare una grande attenzione da parte di tutti.

2 - La montagna del passato

LA MONTAGNA DEL PASSATO

RISORSE E MODI DI VIVERE DELLA POPOLAZIONI

II grano e altri tipi di cereali prodotti in montagna, generalmente insufficienti per alimentare tutta la popolazione, erano consumati in loco e si doveva integrarli con acquisti e importazioni dalle colline e dalla pianura. Altro prodotto, che ha sempre risalito le valli, è stato il vino, sempre molto gradito al montanaro e la cui produzione locale era limitata a poche aree e complessivamente modesta.
E' ben noto, del resto, quale ruolo occuparono, nella monotona e povera vita paesana, l'osteria e le abbondanti e ripetute bevute con gli amici. Nella difficile soluzione dei problemi della sussistenza ocupavano, naturalmente, un posto importante, in particolare tra i pastori, i prodotti locali della pastorizia: formaggi, ricotta, latte, burro, carne di pecora.
Impossibile sapere, invece, quale ruolo avessero in concreto la caccia, soprattutto nei secoli più lontani, quando nei boschi i volatili erano più numerosi e non mancavano cinghiali e caprioli, o la pesca,  i cui pur abbondano, fin dal medioevo, notizie diverse relative al possesso di reti da parte degli abitanti, alla qualità di pesce presente sulla montagna (trote in primo luogo), al suo consumo nei giorni di magro.
In quasi tutto il territorio del nostro Appennino, ad integrare le granaglie provvedevano i prodotti dei castagneti. Si calcolava che un castagno producesse in media mezzo quintale di castagne fresche, da ui sarebbe stato possibile ricavare circa 15 kg. di castagne secche. Le ruote dei mulini ad acqua completavano l'opera.
Una parte dei prodotti della nostra montagna scendeva verso le città e la pianura, non soltanto in direzione dell'Emilia, ma anche, valicando il crinale, verso la Garfagnana, Lucca e le altre città della Toscana.
Sia pure molto frammentariamente, possediamo testimonianze di questo genere un po' per tutti i secoli, fin dal medioevo. La montagna forniva formaggi e ricotta, ovini, lana, castagne, legname e carbone.

Nelle nostre montagne ci si riforniva anche di prodotti minori e di tipo molto particolare come la neve nell'estate, o di oggetti dell'artigianato locale come mestoli, manici, pale, taglieri di legno di fggio. In direzione inversa e in misura sempre più intensa, con l'andare del tempo, risalivano i prodotti delle manifatture cittadine come, ad esempio, le stoffe, per quanto a questi prodotti abbiano sempre fatto localmente concorrenza piccole manifatture locali e la produzione per il consumo diretto da parte delle famiglie (non erano rare le case in cui, a tale scopo, le donne filavano e tessevano).
Per i nostri antenati, il rimedio più diffuso e più consueto al bisogno è stato tuttavia sempre quello dell'emigrazione stagionale, temporanea o definitiva, emigrazione finalizzata alla ricerca di un lavoro nei mesi morti dell'inverno. Un fenomeno particolare è stato sempre rappresentato dalle ragazze che, numerose, andavano a fare le domestiche ( "andare a servizio" si diceva allora) presso famiglie cittadine.

E' anche certo che attraverso i secoli queste correnti di manodopera hanno subito delle variazioni che sono tuttavia difficili da valutare.
Dalla montagna reggiana, all'inizio dell'"800", emigravano, nell'autunno inoltrato, boscaioli, segantini e carbonai verso la maremma, intorno a Piombino, l'Argentario e nella pianura di Grosseto; alcuni di questi, addirittura, si dirigevano verso la Corsica.
Nell'emigrazione stagionale la durata dell'assenza dei lavoratori era determinata dal ciclo di maturazione e di raccolta delle produzioni agricole in montagna. Le partenze ed i ritorni coincidevano con il termine delle operazioni di semina dei cereali e con l'inizio della raccolta delle messi.
Le prime avvisaglie del freddo invernale aprivano perciò un lungo intervallo "morto" - cinque sei mesi - nella vita della montagna, che si svuotava contemporaneamente di pastori e di lavoratori migranti. In questo lungo periodo, per chi rimaneva a casa, i contatti e gli scambi con la pianura e con gli stessi paesi vicini si riducevano o scomparivano del tutto. La neve che ricopriva il terreno rendeva impraticabili i già difficili sentieri, mentre all'inizio della primavera i torrenti ingrossati per il disgelo sbarravano il passo al viandante. Con l'avanzare della primavera, la montagna ritornava a vivere. Pecore e pastori, tagliaboschi e carbonai ritornati dalla pianura ripopolavano le terre, i pascoli ed i paesi. In estate ogni paese celebrava la festa del Santo protettore; in estate erano generalmente concentrate le fiere; in estate il montanaro si recava a piedi in pellegrinaggio verso qualche luogo venerato; in estate infine erano concentrati i più importanti divertimenti degli abitanti.

LA TRANSUMANZA

Transumanza, dal latino "di là dalla terra", nella pastorizia è la consuetudine di trasferire le greggi in estate sui crinali e in autunno nelle pianure, verso il mare. La transumanza era praticata, fin dai tempi più antichi, da quelle popolazioni appenniniche che, essendo meno progredite delle altre, venivano spinte periodicamente a calare verso la pianura tirrenica e verso le altre regioni costiere.
I pastori del minozzese si muovevano in autunno, dalle loro sedi alpestri, per dirigersi alcuni verso la valle del Serchio in Lucchesia, altri verso la piana di Livorno, altri ancora (la maggior parte) nelle ontane maremme. Le pianure del Mantovano erano frequentate dai pastori dell'Appennino Modenese e Bolognese. La presenza dei pastori reggiani in quella zona era pressoché nulla.
I percorsi seguiti dai nostri antenati, della durata di circa 10 - 15 giorni, avvenivano lungo itinerari tradizionali detti "strade doganali" o "maremmane". Lungo i lati di queste vie correvano fasce erbose larghe 14 metri che servivano come pascolo per il bestiame viaggiante e punti di sosta per pernottare. Soprattutto nel viaggio di ritorno i pastori dovevano tosare le pecore, in prossimità dei mercati cittadini, e cercare di piazzare in vendita i prodotti caseari e le lane realizzate.
I percorsi erano obbligatoti e scelti prima della partenza, al momento di iniziare le pratiche di autorizzazione statale, visto che il bestiame doveva essere contato e ricontato presso diversi Uffici Doganali in cui si dovevano assolvere diverse gabelle.
La pastorizia ha perso oggigiorno, nell'economia dei paesi di montagna, il peso che aveva sin dal'antichità. Basti considerare che, fino a qualche decennio fa, tale attività costituiva un'importante fonte di reddito. Con cento capi un pastore del nostro Appennino riusciva a mantenere una famiglia di 4/5 persone.

MESTIERI E LAVORI TRA I MONTANARI REGGIANI

Soffermiamoci un attimo, nell'ambito di queste nostre comunità di montagna, ad individuare e poi a descrivere attraverso i ricordi e le ultime testimonianze dei più anziani, quelle che sono state le quotidiane attività di queste popolazioni. Ci riferiamo ai mestieri ed ai lavori che, sino a pochi decenni fa, hanno consentito alle nostre genti di montagna di sopravvivere, sia pure attraverso stenti e sacrifici d'ogni genere.
Se quella poca e preziosa terra da coltivare costituiva una delle "ricchezze" della montagna, l'altra - la più tradizionale - era certamente data dal bosco. Un bosco che, seguendo le diverse quote toccate dai crinali, poteva essere costituito da castagno, da cerro, da faggio e, qua e là, da isolati nuclei di abete bianco.
Attorno a quest'esteso patrimonio boschivo, si muoveva tutto un mondo interessato, in qualche misura, a trame di che vivere. Erano, primi fra tutti, i boscaioli - o taglialegna - che si occupavano della ceduazione dei boschi secondo le regole tramandate da una secolare esperienza. Erano i conduttori di muli (i leggendari "vetturini") che guidavano nei sentieri segreti del bosco lunghe file di questi pazienti e robusti quadrupedi, per recuperare il legname tagliato.
Sostiamo per un momento all'interno del bosco, ad osservare l'attività delle fumanti carbonaie. Il lavoro dei carbonai iniziava verso maggio, utilizzando legname già da tre o quattro mesi. Un lavoro difficile, quello del carbonaio, che faceva dire ai vecchi del mestiere che "a fare il carbonaio non si è mai finito di imparare". Elemento indispensabile per poter impiantare una legnaia era la disponibilità di un'area perfettamente piana: una "piazza". Mancando questo presupposto il legname si sarebbe sicuramente trasformato non già in carbone, ma in cenere. Quando questo avveniva il padrone "perdeva" la materia prima, ed il carbonaio "ci rimetteva" il proprio compenso. Alla costruzione di una carbonaia si lavorava, di regola, in due persone. S'iniziava costruendo il camino centrale - del diametro di circa 30 centimetri e necessario per l'accensione della carbonaia - e si proseguiva, quindi, ad ammassare tondelli in cerchi concentrici: i più minuti al centro e poi via via i più grossi, per
terminare all'esterno con una parete fatta di ramaglia, di frasche di ginestra e di felce misti con terra, che consentivano di "sigillare" perfettamente il cumulo della carbonaia.
L'attività delle carbonaie durava da maggio ad ottobre, e mentre una carbonaia bruciava (la si accendeva gettando nel "camino" dall'alto, alcune "frasche" incendiate) se ne costruivano altre due o tre. Se ne deduce che, per produrre carbone, una carbonaia doveva "fumare" per quattro-cinque giorni, a seconda che la legna impiegata fosse più o meno secca.
Conclusasi la lenta combustione in carenza d'ossigeno - grazie alla quale la legna si trasformava in carbone - la grande catasta della carbonaia, veniva "aperta". Il materiale fumante, sparso nel terreno circostante con l'aiuto di lunghi rastrelli, veniva spento gettandovi sopra acqua o, mancando questa, soffocato con abbondanti badilate di terra. Il carbone, una volta raffreddato (e questo richiedeva normalmente una mezza giornata),  veniva imballato in robusti sacchi di juta e quindi caricato sui muli: due balle per ogni animale, ingegnosamente chiuse per mezzo di due rami attorcigliati alla "bocca" del sacco e posti in croce. Quindi veniva avviato ai luoghi di raccolta.
Qual era la resa di una carbonaia? Del 20%: da 100 quintali di legna se ne ricavavano 20 di carbone.
Il mestiere di carbonaio è oggi praticato da pochissimi uomini e le "macchie" sono vicine al paese o comunque raggiungibili in breve tempo con l'automobile. Le tecniche e gli arnesi sono sempre gli stessi, ma i disagi sono molto diminuiti: si consumano pasti normali a casa, si fa il bagno caldo ogni sera, si dorme in un vero letto.
Il carbone vegetale è stato sostituito, da tempo, dal gas liquido o dal metano. Oggi viene usato soltanto per la tempera dei metalli in qualche vecchia bottega di fabbro-maniscalco o nelle fonderie, oppure per cuocere le bistecche alla fiorentina. I vecchi carbonai sono da tempo in pensione ed i figli sistemati in città.

Il "SEGANTINO"

O meglio i segantini, perché questo lavoro richiedeva di norma l'uso di lunghe seghe a quattro braccia, venivano chiamati, quando si presentava la necessità di abbattere e ridurre in travi e tavole, esemplari arborei di grandi dimensioni. Ciò accadeva, di norma, quando si doveva costruire una nuova casa o, causa l'ampliarsi della famiglia, si rendeva necessario aggiungere una stanza al corpo del vecchio casolare. I grandi faggi ed i vetusti castagni venivano talvolta tagliati "nel piede": ovvero senza abbatterli. Una volta atterrati, infatti, per il loro stesso peso, sarebbero risultati non più gestibili. Se ne ricavavano dunque le tavole direttamente dal tronco, privato dei rami.
Era, quella del segantino, un'attività di grande dispendio d'energie. Ma questo non era certo sufficiente, occorreva che a ciò si sposasse una lunga dimestichezza e la quotidiana comunione dell'uomo con gli attrezzi del suo mestiere: sega e accetta.


Fra i lavori tipicamente legati alla nostra montagna non possiamo certamente dimenticare.

Lo "SCALPELLINO"

Questa attività, oggi in disuso (ve ne sarebbe grande richiesta per la ristrutturazione dei vecchi edifici, ma sembrano mancare le persone di adeguate capacità), era, invece, assai comune in passato. Quella dello scalpellino era un'arte di cui si avvertiva il bisogno anche nelle povere aree di montagna. Ancora oggi, in diversi paesi del nostro Appennino alcuni vecchi casolari ci rivelano la civetteria delle  pietre angolari bugnate, dei profili in arenaria di finestre e porte, e, non di rado, sull'architrave dell'ingresso, un fiore od una foglia di faggio che, pur nell'apparente semplicità della stilizzazione, rivelano l'abilità della mano che li ha scolpiti.
Quali erano i lavori più frequentemente affidati alle mani dello scalpellino? I più vari: pavimentazione di strade e piazze, realizzazione di pietre bugnate per abbellire portali o per realizzare muretti stradali. E ancora: colonnine e profili per ingentilire le abitazioni, i basamenti di camini e le belle lapidi in pietra che ancora oggi è possibile osservare nei nostri vecchi cimiteri di montagna. Tutto questo veniva realizzato con un'attrezzatura incredibilmente semplice: scalpelli di vario diametro, alcune "punte", "schiantini", "mazzetta" e "mazza". Tutto qui, eppure quante meraviglie sono uscite dalle mani di questi abili artigiani!

In Toscana, come in Emilia e in altre regioni dell'Italia centrale, il termine "VETTURINO" significa quello che il vocabolario recita per il "vetturale" e cioè: "colui che guida cavalli o muli per trasportare persone o merci". Va detto, però, che il lavoro del "nostro" vetturino non si limita alla guida delle bestie, ma riguarda, come vedremo, anche il carico e lo scarico delle merci e tante altre cose. Il mestiere di vetturino risale, quasi sicuramente, ad epoche remotissime, forse a quando l'uomo riuscì ad addomesticare cavalli ed altri animali simili. Oggi questo mestiere è quasi definitivamente scomparso perché nei boschi, anche in quelli d'alta montagna, si può circolare con i trattori. Sono state costruite strade in mezzo alle foreste che, fra l'altro, hanno disturbato anche la vita animale.
I vetturini lavoravano tutti alla stessa maniera, poiché usavano, per l'appunto, le medesime tecniche. Si differenziavano, semmai, per gli orari di lavoro. Il vetturino tosco-emiliano si avviava al bosco a giorno "grande", dopo aver fatto mangiare la biada alle bestie e dopo l'abbeverata, mentre quello abruzzese o marchigiano cominciava un po' prima. L'opera del vetturino era richiesta soltanto per "smacchiare" legna, carbone o altri materiali (pali di castagno, tavoloni, ecc.) da boschi privi di strade. La giornata del vetturino non terminava dopo il rientro serale, ma si protraeva, seppure in maniera non continuativa, fino a tarda ora. La prima operazione che eseguiva era la "sbastatura": il vetturino sollevava il basto con entrambe le braccia, dopo averlo liberato dai finimenti, lo metteva in un luogo riparato. Terminata la "sbastatura" governava le bestie e poi se stesso. Dopo la cena si tratteneva a "veglia" e prima di andare a letto tornava nella stalla per abbeverare le bestie e per mettere al collo di ognuna la "musiera" (sacchetto di tela) riempita a metà di biada, in genere avena e fave. Quando le bestie avevano consumato la biada, il vetturino toglieva le "musiere" e riempiva di fieno le mangiatoie.

L'alba lo trovava già in piedi, non per iniziare il lavoro come facevano i carbonai, ma per controllare lo stato dei muli e dei cavalli e per "rigovernarli". Solo a giorno fatto metteva il basto alle bestie, le faceva bere e si avviava al bosco.
II  vetturino aveva fama di    "imprecatore", tanto per usare un eufemismo, di "bevitore" e di accanito giocatore di "morrà". Riguardo al primo punto, un caro amico di Civago   (ex  vetturino):   Liano   Fioravanti,  mi  disse  un  giorno   che   non  bisognava scandalizzarsi perché chiunque imprecherebbe se dovesse lavorare con delle bestie, che, pur riconoscendo l'autorità del capo, non sempre rispettano gli ordini.
Per quanto concerne il bere, i vetturini sono esperti intenditori e "capaci" consumatori. Durante il riposo serale e in occasione di forzata interruzione del lavoro, si riuniscono per discutere, per cantare e, soprattutto, per giocare alla "morra".

Il mestiere del "TAGLIALEGNA"
ha origini antichissime ed è praticato anche oggi sulle nostre montagne da diverse persone. Va detto subito che gli arnesi sono mutati, in parte, intorno agli anni cinquanta. Prima si usavano accette, pennati, marracci, seghe azionate a mano, magli e zeppe. Ora è la motosega che la fa da padrona; questo mezzo permette quasi tutte le operazioni in tempi assai più brevi e con un minor dispendio d'energie fisiche. Si usano ancora accette e pennati, ma solo per lavori di pulitura dei pezzi di legna più piccoli.
Il lavoro del taglialegna consiste nell'abbattimento delle piante d'alto e medio fusto e nella selezione delle stesse, secondo l'uso che se ne vuoi fare.
Dalle piante, infetti, si può ricavare legna da ardere e da carbonizzare, tavoloni per la costruzione di mobili, porte, infissi, travi ecc.
Oggi il taglialegna lavora nei boschi non lontani da casa o comunque raggiungibili in breve tempo con l'auto.
Meritano, infine, un cenno, tra i lavoratori itineranti che nel passato battevano i nostri paesini di montagna, i sarti, i calzolai, i calderai, gli spazzacamini, e gli arrotini.
Va però precisato che gli ultimi due: gli spazzacamini e gli arrotini di rado si spingevano sui monti a visitare i casolari isolati. La loro attività si svolgeva, solitamente, nei paesi dove il flusso di denaro era un poco più consistente, e quindi la loro opera era più richiesta, il montanaro era ben poco propenso a spendere denaro per piccoli lavori che poteva espletare di persona. Una semplice ruota di pietra locale, mossa a mano o a pedale, era presente in ogni casa isolata. Serviva ad arrotare i coltelli di casa, le zappe, i badili e bastava alle poche pretese.
Per provvedere alla pulitura dei camini il nostro uomo si serviva, invece, di un cespuglio di ginepro, onnipresente sulla nostra montagna. Legato al mezzo di una fune, il pungente e ramoso arbusto veniva "tirato" e "mollato", alternativamente, da due "operatori" posti l'uno sul tetto della casa, l'altro al suo interno, alla base del camino stesso.

ABITUDINI ALIMENTARI

Nell'età preindustriale, al centro del sistema alimentare dei nostri compaesani, si collocava in primo piano il paiolo che bolliva lentamente, quasi di continuo, appeso alla catena del camino, alimentato da un fuoco perenne o tenuto tiepido da una brace raramente spenta o fredda, cui erano sconosciuti i mutamenti di stagione. Più sotto, sparse, si stendevano le ceneri del focolare, anch'esse utili a cuocere patate, cipolle ed altro.
Il fuoco ed il paiolo sono stati per molti secoli gli strumenti indispensabili e gli elementi chiave della cucina montanara, e l'acqua salata il semplice e magico fondo dal quale, con l'aggiunta di lardo o di strutto, si otteneva una minestra o una zuppa.
La casa contadina di montagna, più piccola e morfologicamente diversa da quella di pianura, aveva anche una camera appositamente attrezzata per l'essiccatura delle castagne, che costituivano il punto chiave dell'alimentazione montanara. Nell'Alto Appetirono Reggiano, dove l'influsso della vicina Garfagnana era fortemente sentito, i locali adibiti all'essiccatura delle castagne: i cosiddetti "METATT', erano posti lontano dalle abitazioni, in prossimità dei luoghi di raccolta.
Il vitto (notava un naturalista del settecento a proposito della Garfagnana, ma l'osservazione vale per tutte le popolazioni dell'arco appenninico, compreso naturalmente il nostro territorio) consiste quasi solamente in castagne, o fresche o arrostite o bollite, o seccate o ridotte in farina.
A tal proposito, abbiamo pensato di dedicare il prossimo capitolo a questo straordinario alimento.
Tornando alle abitudini alimentari dei nostri conterranei, si può affermare che facessero qualche uso del latte e del formaggio; ma in quanto a carne, o fresca o salata, pochissimi ne mangiavano, ed alcuni sembra che non ne abbiano mai assaggiata.
Miserabili e quasi inesistenti gli utensili da cucina: una pentola abbastanza capace e poc'altro. La famiglia montanara non conosceva bicchieri, né tazze, ma faceva uso di un gran mestolo posto in mezzo alla tavola o in un angolo della cucina, con cui bere.
Ovviamente, alla tavola dei meno poveri si poteva anche trovare la minestra e, in quella delle rare famiglie agiate, qualche pietanza di carne lessata o arrostita.
Ma la regola era l'indigenza assoluta. Polenta di farina di castagne, niente o scarsissima carne, mancanza di vino: il regime alimentare appenninico, in linea di massima uniforme in tutta la montagna emiliana, appariva pressappoco identico sia all'ignoto viaggiatore del "500" che ai relatori dell'Inchiesta Agraria presieduta da Stefano Jacini nel 1881.
Immobile era rimasto, dopo tanti anni, il regime alimentare perché immobili erano restate le tecniche agrarie, i rapporti di proprietà e gli strumenti di produzione. Prevalente era in montagna (contrariamente alla pianura) la piccola o la piccolissima proprietà che spesso si riduceva ad una fetta di castagneto o ad una porzione di pascolo. La struttura socioeconomica del mondo appenninico è contrassegnata dal generale egualitarismo montanaro, dalla presenza di un nugolo di piccoli proprietari di terra, di greggi, di armenti, che fanno singolarmente contrasto con i contadini proletari della collina e della pianura.
Ai tempi dell'Inchiesta Agraria sopraccitata (per la Val Secchia e la Val Dolo le interviste furono effettuate in quel di Villa Minozzo), la geografia alimentare della Regione veniva giustamente divisa in 4 fasce, ognuna con particolari caratteristiche.
La fascia che ci riguarda, la più miseranda, così enuncia lo stato alimentare della nostra popolazione montanara:
"al monte niente vino o pochissimo; quello che si consuma è alla bettola o all'osteria, andando nei di festivi ai centri abitati più prossimi; pane pochissimo e per lo più di mistura; qualche minestra di frumento condita al lardo; molta polenta di castagne, molto granoturco scambiato con castagne per amore più che altro di varietà. Pochissima carne ovina e più di rado porcina; poche ortaglie, uova, latte, formaggio: per quanto se ne può avere dall'orticello e dagli animali domestici che si allevano; qualche selvatico cacciato di frodo".
Dalla fine dell'ottocento ai nostri giorni la situazione alimentare nelle nostre montagne è andata via via migliorando, sia pure molto lentamente, sino a raggiungere, negli ultimi tempi, un livellamento assoluto e generalizzato.

LE CASTAGNE DEL PASSATO

Una delle prime iniziative che gli abitanti dell'Alta Val Dolo assunsero nei loro paesi fu quella di piantare, nelle immediate vicinanze delle loro abitazioni, numerose piante di castagno. Dopo qualche anno, il raccolto delle castagne venne a costituire l'alimento base di quelle popolazioni, sopravanzando largamente lo scarso consumo di farine di grano, di granoturco e segale.

Il Castagno

La pianta di castagno è un albero che vegeta in territorio di media e d'alta collina, nonché in località di montagna sino a circa 1000 metri d'altitudine. Il ciclo vegetativo parte in primavera con lo spuntare delle prime foglie e, subito dopo, con la fioritura da cui spunteranno i cardi. Proprio nei cardi le castagne prenderanno forma sino alla maturazione. Il mese in cui si fa il raccolto è quello d'ottobre, con un'eventuale piccola coda nel mese di novembre, a seconda dell'andamento climatico delle stagioni.

La raccolta delle castagne

II raccolto delle castagne veniva effettuato con l'aiuto di tutti i componenti della famiglia, fatta eccezione per le persone anziane e per i bambini più piccoli. Quasi tutte le famiglie del paese risultavano proprietarie di un castagneto, dove poter effettuare il relativo raccolto. Una disposizione della Podesteria di Minozzo stabiliva che le castagne che cadevano nelle pubbliche vie erano da considerarsi "RES NULLIUS" (principio del Diritto Romano che letteralmente significa: "cose di nessuno") e quindi nella piena disponibilità di chi le avesse raccolte. Le famiglie che non disponevano di un castagneto, pochissime per la verità, cercavano di raccogliere qualche castagna lungo queste vie pubbliche. Un'altra regola in vigore nella Podesteria stabiliva che, dopo la giornata del 2 novembre (ricorrenza dedicata ai defunti), nei castagneti poteva introdursi il bestiame, il che consentiva a tutti di poter raccogliere quelle castagne che erano sfuggite agli attenti proprietari.

Essiccazione delle castagne — II Metato

Le castagne possono essere utilizzate verdi o secche. Circa l'utilizzo delle castagne verdi diremo più avanti. H procedimento di essiccazione si svolgeva in un locale chiamato il"Metato".
Si tratta di una costruzione in sasso di non grandi dimensioni, alta circa 4 metri e coperta a "piagne". A circa 2 metri d'altezza veniva ricavato un piano ottenuto con listelli di legno di castagno, distanziati di qualche millimetro l'uno dall'altro, ma in misura tale da non far cadere le castagne. Queste venivano fatte scivolare sul ripiano attraverso un'imboccatura inclinata verso il basso. Sotto il ripiano si accendeva un fuoco con ciocchi di castagno che bruciavano lentamente e assicuravano una combustione 24 ore su 24. Questa operazione durava dai 30 ai 40 giorni. Alla fine le ceneri venivano

rimosse, i listelli del ripiano allentati, così da far cadere le castagne perfettamente essiccate. In Civago c'era un macchinario, munito di motore a scoppio, che provvedeva a liberare le castagne dalle bucce residue. Operazione che, altrove, veniva effettuata manualmente. Come già precisato, si ricorda che nell'Alto Appennino Reggiano, dove l'influenza della vicina Garfagnana era molto sentita, i locali adibiti all'essiccatura delle castagne erano ubicati lontano dalle abitazioni, in prossimità dei luoghi di raccolta.

La Castagna alimento di base

Le castagne sono state per molti secoli l'alimento base delle popolazioni appenniniche. Private della buccia e cotte nel loro brodo, leggermente salato, i cosiddetti "BORGHI", si mangiavano come minestra. Si mescolavano anche con il latte e in tanti altri modi. Ridotte in farina servivano a preparare la polenta che, semplice o condita in varie maniere - la più ambita era quella accompagnata alla carne di maiale - costituiva l'alimento base del montanaro per molti mesi dell'anno.
Assai ricca, inoltre, è la serie dei piatti preparati con la farina di castagne: ricordiamo, tra gli altri, le frittelle, il castagnaccio, i necci (una specie di piadina) da gustare con ricotta di pecora.
Nelle nostre città, in qualche angolo di piazza, vediamo ancora, nella stagione invernale, i venditori di "caldarroste", ultimi baluardi di una cultura e di una tradizione che accompagnò ed alimentò per secoli la vita del montanaro.

Il Mulino

Le castagne verdi diventano secche nei metati per trasformarsi in farina dolce grazie alle macine dei mulini ad acqua. Quasi tutti i paesi di montagna, posti nelle vicinanze di fiumi o torrenti, erano dotati di mulini ad energia idraulica.
Anche Civago ha avuto per una lunga serie d'anni il suo mulino, che ha cessato di operare una cinquantina d'anni or sono per due motivi. In primo luogo perché gli abitanti del paese avevano cessato di lavorare i terreni dove venivano coltivati orzo, segale e grano "marzuolo"ed inoltre perché avevano smesso di raccogliere e quindi di essiccare le castagne; in secondo luogo per la concorrenza dei grandi mulini, assolutamente più competitivi dei nostri manufatti ad acqua.
Recentemente una provvida iniziativa del Comune di Villa Minozzo ha fatto sì che il Mulino di Civago fosse restaurato in ogni sua parte. H piano superiore, un tempo destinato a camere da letto dei mugnai, oggi è diventato una comoda "Sala Riunioni". A piano terra fanno bella mostra di se 5 macine in pietra, quelle macine, che nel passato, ruotando sotto la spinta dell'acqua del Dolo, consentivano ai paesani di avere la farina dei propri cereali e delle proprie castagne.

Il Castagno nell 'edilizia e nell 'arredamento

Gli ingredienti fondamentali di una casa di montagna, un tempo, erano costituiti da pietra del luogo, murata con calce viva e sabbia di fiume. La copertura era in piagne. La trabeazione, i ripiani, le mensole ed i travetti di sostegno, le porte ed infine le finestre, erano tutti ricavati da travi e da tavole di legno di castagno.
L'arredamento di queste case, scarso ed essenziale, era anch'esso formato da mobili costruiti esclusivamente in legno di castagno di rozza, anche se di solida fattura, in quanto realizzati dai proprietari stessi delle case.

Le Castagne nella Civago dell '800 — dati statistici

Nei primi anni dell'800, Filippo Re, agronomo di chiara fama del Ducato di Modena e Reggio, effettuò un viaggio attraverso le montagne dell'Appennino Reggiano. Un viaggio che gli permise di annotare, in un'approfondita relazione, lo stato delle attività agresti praticate nell'Alta Val Dolo.
Interessante e curiosa l'annotazione riferita alla situazione che lo studioso ebbe modo di rilevare a Civago. Egli apprese che il paese, con i suoi 418 abitanti, traeva il suo maggior profitto dalle castagne: circa 500 staie l'anno. Mediamente ogni abitante di Civago poteva contare, annualmente, su una settantina di Kg. di questo prezioso frutto autunnale.

Considerazioni finali

Attualmente la raccolta delle castagne, specialmente nelle località dell'Alta Valle del Dolo, non si effettua più come una volta. I proprietari dei castagneti ne raccolgono uno o due cestini, obbedendo più ad un fatto abitudinario che ad una stretta necessità.
Qualche turista della domenica esce dal castagneto con la sua brava borsa (ahimè di plastica il più delle volte) piena di castagne. Ma tutto finisce qui, almeno per ciò che concerne il raccolto. Il vero problema è, purtroppo, la tenuta dei castagneti intesa sia come pulizia del sottobosco che degli stessi castagni.
Attualmente gli abitanti dei nostri paesi, diradati di numero e quasi tutti vecchi pensionati, non sono più in grado di fare la manutenzione del bosco. Quei pochi giovani che ancora risiedono in queste località, essendo in tutt'altre faccende affaccendati, non prendono più a cuore questi problemi.
La nostra unica speranza risiede, quindi, nell'auspicabile interessamento del Parco Regionale di recente costituzione. Si spera vivamente che questo Ente, nell'ambito delle proprie prerogative quali la tutela del patrimonio boschivo della regione, prenda in particolare considerazione la tutela dei numerosi castagneti del nostro Appennino.

GIOCHI PAESANI DEL MINOZZESE

Fedeli ai costumi dei loro antenati, gli abitanti di Minozzo alternavano le lunghe fatiche del campo o del bosco alle pause domenicali, trascorse parte in Chiesa, parte nell'osteria e in giochi all'aperto come quello della "Ruzzola" con i formaggi. Era questo il gioco che appassionava maggiormente la popolazione.
Si trattava di una sfida consistente nel lanciare una forma di formaggio pecorino il più lontano possibile. Per comodità poteva essere utilizzata una "ruggiola" di legno del tutto simile ad una forma di cacio. Le sfide si potevano contenere nell'ambito della Comunità, ma non di rado si organizzavano gare fra paese e paese. Generalmente accadeva così: la domenica mattina gli abitanti di Minozzo, che si recavano alla Messa Parrocchiale, scorgevano, appesa al battente fermo della porta d'entrata, una forma di cacio d'un mezzo peso. Era il segno che uno con quell'atto sfidava tutti gli altri abitanti del paese.
Non ci voleva altro per eccitare l'emulazione. Si formavano i crocchi, si stuzzicavano a vicenda, finché il più caldo, davanti agli occhi di tutti, andava a distaccare la forma: la sfida era accettata definitivamente e si sarebbe disputata davanti a tutto il paese, dopo il Vespro (ai più giovani ricordiamo che il Vespro era la funzione che un tempo si celebrava nelle Chiese la Domenica pomeriggio), nella spianata tenuta appositamente a disposizione dei giochi paesani fin dai tempi più antichi.
La Comunità di Minozzo si serviva a tale scopo di una spianata, rimasta prativa fino a prima della seconda guerra mondiale, chiamata "le piane" nella parte toccata, con la divisione bonaria legittimata solo in questi ultimi tempi, alla prebenda parrocchiale.
La sera, nelle "veglie" e nelle osterie, si discuteva dell'esito sortito nella partita e, intanto, si preparava già un nuovo confronto per la Domenica successiva.
Dapprima il prezzo della vittoria era la forma che l'eroe portava a casa come trofeo; ma con le deviazioni esagerate che avvengono in tutte le cose - è infatti la cosa più difficile serbare immutabile il senso dell'equilibrio - si arrivò a fare una posta multipla; anzi, se si usava la "ruggiola" (la forma di legno) si potevano puntare fino a 40 e a 50 ducati d'argento, sì da mettere a repentaglio la stabilità economica di una famiglia, per l'avventatezza di un giocatore.
Per il bene pubblico intervenne l'Autorità nella persona del Podestà di Minozzo, il quale fece spiccare nel 1598 una "Grida" in cui si fissava, come prima, di non poter scommettere più del valore reale della forma che si lanciava. Una decina d'anni più tardi se ne pubblicò un'altra analoga in cui (questa volta) il Duca prescriveva che alla "ruggiola" non si potevano giocare più di due scudi.
Un altro gioco consimile che si fece strada più tardi a Minozzo e nei paesi circostanti e contendeva il primato alla "forma", consisteva nel lancio della boccia di ferro, che comportava un fondo di terreno più sodo e facilmente si faceva lungo la via  comunale, dove questa meglio si adattava.
Per il tiro alla boccia di ferro, i Minozzesi si servivano con più comodo del tratto di strada che conduceva dalla Rocca alla Chiesa.
Non risulta, invece, che i nostri bravi antenati fossero matti per il ballo, come in certi paesi di pianura.
Uno svago di maggior considerazione ed elevatezza morale era formato dal canto del "Maggio". A questa caratteristica forma di Teatro Popolare abbiamo dedicato un capitolo a parte.

 

3 - Le tradizioni popolari

LE TRADIZIONI POPOLARI

IL MATRIMONIO DI UNA VOLTA

II matrimonio è sempre stato considerato, specie per la tradizione montanara, un avvenimento di grande rilievo non solo per coloro che dovevano pronunciare il fatidico "sì", ma pure per parenti ed amici che partecipavano con estremo entusiasmo e calore a questo evento. Molto spesso il giorno delle nozze lo si passava all'interno dei confini domestici, con i parenti più prossimi e con un certo numero di usanze e rituali che, a grandi linee, sono state sempre presenti nelle varie realtà dei paesi della nostra montagna e che stanno ora diventando tradizioni sempre più sconosciute. Volgiamo ora uno sguardo al passato per vedere come si svolgeva il matrimonio a quei tempi e come le usanze erano diverse da oggi.
Innanzi tutto i promessi sposi s'incontravano solitamente la sera dopo cena davanti a casa o nelle stalle, ma comunque sempre vicino a genitori, parenti e conoscenti. Solamente la domenica ci si poteva vedere liberamente (se di libertà si può parlare) nella piazza del paese, prima o dopo la messa. Se un ragazzo ed una ragazza "si parlavano" stava significando che tra di loro vi erano serie intenzioni. Il fidanzamento, come dimostrava il famoso detto: "SEMPR MURUSA E MAI MUJERA" (sempre morosa e mai moglie), poteva superare benissimo i 10 anni.

Dote e  "Flipa"

Quando si riteneva che i due fidanzati fossero preparati per intraprendere la vita matrimoniale il padre, od entrambi i genitori dello sposo, si recavano a casa della futura nuora per chiederne ufficialmente la mano.
Spesso in quell'occasione, oltre a fissare la data del matrimonio, si parlava anche dei vari compiti delle due famiglie o dei novelli sposi, come ad esempio la preparazione del corredo.
La sposa portava, infatti, solitamente in dote un misero corredo - confezionato da lei personalmente sotto le direttive della madre - che in genere comprendeva due lenzuola, due federe e qualche asciugamano.

Lo sposo invece doveva iniziare a costruire da solo, al massimo seguendo i consigli del falegname del paese, il mobilio della camera, ossia il letto e un piccolo guardaroba dove riporre il corredo nuziale.
La sposa, durante i preparativi riguardanti il giorno delle nozze, era molto spesso aiutata dai consigli della "Flipa" (Filippa - termine di solo uso dialettale), cioè da quella donna che s'impegnava ad organizzare al meglio tale giornata occupandosi di vari compiti quali l'abito, la funzione in Chiesa e, soprattutto, la "Torta".
La "Flipa" aveva, inoltre, il compito di preparare la futura sposa alla vita coniugale spiegandole pure "quei particolari" che la mamma non si era mai assunta l'incombenza di insegnarle.
La sposa vestiva solitamente con un abito molto semplice, bianco solo dopo la seconda guerra mondiale e, talvolta, poteva indossare un velo in testa; l'abito dello sposo, il più delle volte, era scuro e molto spesso, conclusa la cerimonia, rimaneva per tutta la vita, l'unico abito elegante (il leggendario abito della "festa").

La ricerca della sposa e  "l'Imbuscada "

La mattina della cerimonia lo sposo andava a cercare la fidanzata a casa trovando inizialmente altre donne, che gli venivano presentate, ma che egli rifiutava elogiando la sua futura moglie che compariva dopo molto tempo; è usanza recente l'arrivo della sposa alla Chiesa accompagnata dal padre e seguita dagli invitati. Poiché il pranzo si consumava a casa della sposa, alla cerimonia molto spesso mancava la madre che si tratteneva nell'abitazione per curare i preparativi. La cerimonia era semplice:
Questo tradizionale scherzo dell'imboscata si può a volte ancora vedere nei matrimoni attuali.
Contenti, divertiti e con un po' di fame, fra gli "evviva" e gli spari di fucili da caccia, si proseguiva il tragitto verso la casa della sposa. Il pranzo, quel giorno, non era certamente "luculliano", tuttavia abbastanza ricco ed abbondante: primo, secondo, vino a volontà, e infine la torta nuziale generalmente di croccante.
Durante il pranzo, negli anni più recenti, c'era l'usanza di tagliare la cravatta allo sposo, per far sì che ogni invitato ne prendesse un pezzettino come ricordo della bella giornata trascorsa. Se tra gli invitati vi era qualcuno che in precedenza era stato sentimentalmente legato ad uno degli sposi si coglieva l'occasione per deriderlo con un altro tradizionale scherzo: l'"incalcinada".
L'"incalcinada" consisteva nel versare addosso a questa persona farina (di frumento) o cenere e, nel caso non ci si riuscisse, si mescolava la cenere (o la farina) con acqua, ottenendo così una specie di "calcina" che si tirava contro il muro dell'abitazione dell'interessato.
Dopo il pranzo vi era sempre qualche persona, tra gli invitati o al di fuori di essi, che si presentava con chitarra e violino o con la fisarmonica per rallegrare ancora di più il già esistente clima di festa suonando qualche pezzo e permettendo così a sposi ed invitati di fare qualche ballo in compagnia.
Nel tardo pomeriggio la sposa veniva accompagnata nella sua dimora coniugale (a casa dello sposo) da tutti i presenti e principalmente sostenuta da una figura, ormai scomparsa anch'essa: "E mnun" (letteralmente: "menone", ossia colui che mena, colui che conduce; nel nostro caso "e mnun" era colui che aveva il compito di portare la sposa a casa dello sposo).
Arrivati alla nuova abitazione, prima di essere ufficialmente accolta, veniva sottoposta ad un lungo, scherzoso interrogatorio, da parte della suocera, durante il quale, quest'ultima si avvaleva dell'aiuto del "Mnun".
Dopo quest'interrogatorio e dopo l'ingresso da parte della sposa nella nuova famiglia, ci si rimetteva nuovamente a tavola per la cena; dopodiché, prima di andarsene a letto, si continuava il clima di baldoria, ricominciando a ballare fino a mattina inoltrata.
La prima notte di nozze era un'altra occasione che gli amici avevano per far lavorare la fantasia e far tribolare gli sposi con altre burle che potevano andare dal sale cosparso sulle lenzuola, alla campanella attaccata alla rete del letto e, se uno degli sposi era vedovo, non poteva mancare la "chiucona" (cioccona, termine di solo uso dialettale). Questo scherzo consisteva nel raccogliersi degli amici sotto la finestra della camera da letto con strumenti improvvisati come campanacci, coperchi, scatole di latta, lamiere e bastoni per fare un "concerto", il più chiassoso possibile. Negli ultimi anni questo scherzo è stato mantenuto e generalizzato con recipienti di latta legati dietro le automobili.
Abbiamo finora parlato di come in altri tempi si svolgeva una giornata così importante come quella del matrimonio, tralasciando però due importanti argomenti: il viaggio di nozze ed il "regalo".
Come si potrà facilmente capire il viaggio di nozze a quei tempi non esisteva, si poteva al massimo considerare tale il tragitto che andava dalla casa della sposa a quella dello sposo. Per quanto, invece, riguarda il regalo, esso è un'usanza diffusasi soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Prima, se venivano fatti doni, erano solamente regali in natura utilizzati proprio il giorno delle nozze; quali: uova, dolci o torte - rigorosamente fatte in casa - o, "se andava bene", una gallina.
Il "giorno più bello della vita" - come abbiamo visto - veniva trascorso dai nostri nonni con estrema semplicità ed allegria anche se a volte si potevano avere matrimoni celebrati di nascosto, di notte, in modo da evitare problemi quali la non accettazione del futuro genero o della futura nuora da parte dei rispettivi suoceri, o quando l'uomo avesse più fidanzate contemporaneamente e semmai una di esse incinta.
Questi ultimi matrimoni si avevano in numero minore rispetto a quelli precedentemente descritti, ma non erano cosi rari come potrebbe sembrare.
(da una "Ricerca" di Alessandro Gaspari)

IL DIALETTO NELLE FILASTROCCHE DI UN TEMPO

A tutte le età e in qualsiasi momento, ogni persona molto spesso ricorreva a qualche filastrocca per colorire maggiormente i propri discorsi, già ben marcati dall'uso quotidiano del dialetto.
Il dialetto rappresenta quel patrimonio culturale che dalla montagna alla bassa, in ogni paese con le sue inflessioni e le sue varianti locali, trova difficoltà nel sopravvivere. La causa è da ricercarsi anche nell'ingresso, sempre più sfrenato, di un lessico che risente non solo della presenza di vocaboli stranieri, ma anche di un gergo specifico e tecnologico. Ci troviamo così di fronte ad un valore che purtroppo va man mano scomparendo.
Tuttavia, oggigiorno, si possono ancora avere testimonianze dirette della realtà dialettale di una volta. Infatti, è sufficiente recarsi in un qualsiasi borgo del nostro appennino e scambiare qualche parola con persone non più tanto giovani. Queste ci intratterranno sicuramente molto volentieri e saranno liete di ripercorrere con la niente altri tempi e rievocare così vecchie novelle, filastrocche, proverbi, modi di dire, ecc.

Dalla polenta al divertimento

Questi riferimenti al dialetto sono stati desunti dalle testimonianze di persone anziane, anche se in alcune pubblicazioni possiamo trovare il testo con varianti. Queste filastrocche sono, nel contempo, figlie di tutti e di nessuno, poiché chiunque poteva conoscere canzonette, nenie e detti, ma nessuno ne era in realtà l'artefice: scaturivano dalle menti di persone povere e modeste. Il più delle volte avevano come oggetto la loro vita quotidiana, il loro mondo contadino, riconducendo all'immagine della cucina o, come direbbe Giovanni Verga, del "focolare domestico". La vita di queste umili persone era, infatti, scandita da faticose ore di lavoro nei campi, nell'aia, o semplicemente in casa, accompagnate da dialoghi in vero dialetto: né dialetto italianizzato, né italiano dialettizzato, ma un linguaggio "popolare" semplice ed essenziale utilizzato quotidianamente in qualsiasi momento o circostanza. Numerose erano le occasioni dalle quali trarre spunto.

Il pranzo abituale

La pulenta ad furmentùm,
a chi vecc l'agh farà bun,
a chi giòvn ai spaventa,
basta mo cun la pulenta!

(la polenta di frumentone, ai vecchi gli farà anche bene, a quei giovani li spaventa, adesso basta con la polenta!)

La polenta, pranzo più che consueto del quale i giovani erano ormai stanchi, al contrario dei vecchi che questa miseria avevano ormai accettato.

Il taglio dei capelli ai bambini

Sùca plada fa i turtee
pr'an in dar ai so fradee;
so fradee fan la sulàda
pr'an in dar a sùca plada.

(zucca pelata fa i tortelli per non darne ai suoi fratelli; i suoi fratelli fanno la solata - specialità culinaria montanara - per non darne a zucca pelata).

Questa filastrocca nata dapprima con lo scopo di intrattenere i fanciulli durante questa brigosa operazione, è divenuta poi una "canzonetta" recitata di frequente, anche in altri momenti.

Il singhiozzo dei bimbi

Sangiòt, sangiòt
la pègra l'è in té pòz
la pègra l'è in té prà
e sangiòt l'è pasàa!

(singhiozzo, singhiozzo, la pecora è nel pozzo, la pecora è nel prato, il singhiozzo è passato!)

Semplicemente pronunciata con il tentativo di distrarre i piccini e far passare quel singhiozzo così fastidioso, che non accennava a cessare in altro modo.

Il divertimento e la spensieratezza dei più giovani

A gh'era 'na volta
un top e un ricc
chi rampavi su pr'un gradic
e gradic e de a la volta
vot che t'la cunta n'atra volta?

(c'era una volta un topo e un riccio che si arrampicavano su per un "graticcio" - il graticcio era un rustico cancelletto fatto con rametti di salice per chiudere semplici recinzioni - il graticcio si è capovolto, vuoi che te la racconti un'altra volta? )

Questa filastrocca era rivolta in particolare a quei bimbi che non si stancavano mai di farsi raccontare qualche favola dagli adulti.

Dùnca dùnca
tri cunchin i  fan na  cunca
tre cùnch e'l  fan un  cùncun
chi l'va sòta   l'è 'l  più bùn!

(Dunque, dunque, tre conche piccole fanno una conca, tre conche fanno una grossa conca, chi va sotto è il più buono! ).

La manina mata
la picia cul cla cata,
la cata e so padrun
pim pum un bel sciafun!

(La manina matta picchia quello che trova, trova il suo padrone, pim pum un bel schiaffone!).

Lumache e astuzia

Le filastrocche non avevano l'obiettivo di trasportare i fanciulli nel mondo delle favole, ma semplicemente quello di distrarli qualche minuto mentre genitori e nonni erano occupati nelle loro attività.
Infatti,  molte cantilene avevano lo scopo di rallegrare i giovani, attirando la loro attenzione, ed è il caso degli  esempi appena riportati, con semplici giochi di rima, con semplici conte, o con varie forme di movimenti e di gestualità.

L'incontro con insetti o animali

Lumàga lumaghina,
la va pian la bestiulina,
la va pian pr'ans rumpr i'oss,
la so ca lagh'Iha adoss.
La dis che a'ndar pian,
a s'va fort e a s'va luntan.

(Lumaca lumachina, va piano la bestiolina, va piano per non rompersi le ossa, la sua casa ce l'ha addosso. Dice che ad andare piano, si va forte e si va lontano).

I compagni di gioco dei bambini erano di frequente le bestiole o gli insetti e, per questo, molto spesso si inventavano filastrocche per ricordare tali animali, come l'esempio soprariportato della chiocciola.

L'astuzia tra due persone

A divid da bun fradel,
a ti la cagna e a mi e purcel,
st'a paura ca t'ingana,
a mi e purcel e a ti la cagna.

(divido da buon fratello, a te la cagna e a me il maiale, se hai paura che io ti inganni, a me il maiale e a te la cagna).

Questo è l'esempio di come i destinatati delle filastrocche non fossero unicamente i bambini, ma a volte anche gli adulti: in questo caso una scherzosa dimostrazione di furberia e di malizia.
Quanto abbiamo citato rappresenta una infinitesima parte di quanto si potrebbe sentire nella realtà dei vari paesi montani e riportarle tutte per iscritto occorrerebbe uno spazio ben più ampio. E' auspicabile, tuttavia, che questo spazio, seppur piccolo, che si riferisce a quel parlare più colorito dell'italiano, possa essere servito a persone già mature per rivivere qualche attimo dell'adolescenza; analogamente per i giovani, come incitamento a coltivare la tradizione dialettale dei nostri paesi. Sarebbe veramente bello che tutti i giovani ritagliassero un angolo del loro bagaglio culturale, da dedicare alla civiltà del dialetto, contribuendo a tutte le iniziative che lo connotano e che lo mantengono vivo nel corso del tempo.
(da una Ricerca di Alessandro Gaspari)

LA BEFANA

II rituale della notte della Befana, nei paesi dell'Alta Val Dolo, era molto suggestivo e coinvolgente. In quella magica notte, infatti, un gruppo di persone si preparava a cantare e due di loro si mascheravano da Befana e da Befanotto. Tutti insieme, accompagnati dai suonatori, si recavano verso le case del paese per cantare, presso ciascuna di esse, un canto canzonatorio che prendeva di mira il comportamento e le abitudini dei padroni di casa.
Se le prestazioni dei "canterini" riscuotevano successo, il padron di casa li faceva entrare per offrir loro cibo e bevande. Subito dopo, seguita dalla famiglia che li aveva accolti, la squadra di bontemponi continuava a visitare le altre case dell'abitato.
A notte alta, la compagnia si riuniva nell'edificio più grande del paese per l'ultimo brindisi e per scoprire le persone che si nascondevano dietro le maschere dei due protagonisti della serata.

BUONDÌ

II primo giorno dell'anno durante la mattinata i bambini si recavano nelle case per augurare il "buon anno", i padroni di casa dopo aver ascoltato in silenzio, offrivano ai piccoli castagne, frutta e biscotti e qualche rara carameIla.

"Bundì e bun ann fadm e bun dal anch pre'stann
e fadml ben ch'a turn anch' l'ann'quen"
(Buon dì e buon anno fatemi un dono anche quest'anno, e fatemelo bene perché così tornerò anche l'anno che viene)

IL CARNEVALE  ( I "Mascr")

Ogni martedì grasso venivano preparate, in ciascuna abitazione, le frittelle di Carnevale allo scopo di offrirle a tutti coloro che, mascherati a dovere, si recavano presso le case ove eseguivano un ballo accompagnati dall'orchestra.
Il compito dei padroni di casa era quello di indovinare chi si nascondeva sotto le maschere senza indizio alcuno; una volta riusciti nell'intento avevano diritto a "smascherare" gli ospiti riconosciuti (in caso contrario essi uscivano dalla casa in silenzio).

IL BALLO DEI GOBBI

Da Novellano, paese della prima rappresentazione, nel 1937 il ballo dei gobbi si sposta nella stalla del prete di Cazzano e rimane tra le tradizioni di questo paese.
Nato come messinscena carnevalesca, consisteva in una danza accompagnata da una melodia tipica durante la quale quattro personaggi travestiti da vecchi, appesantiti da una vistosa gobba e muniti di bastone prendevano ad insultarsi sinché il diverbio degenerava in scontro fisico: calci nel sedere e bastonate sulla gobba di grande effetto. Momento particolare è quello in cui gli attori si scambiano il cappello:

la difficoltà, oltre a quella di mantenere il ritmo della musica, consiste nel cercare di riavere sulla testa, al termine della musica, il proprio copricapo; i "gobbi" sono assistiti in questo passaggio dal loro accompagnatore, il "MNU'N", il quale raccoglie i cappelli caduti.
Le rappresentazioni, seppur rare, rimangono costanti da allora.
A proposito del "Ballo dei gobbi", ci sentiamo di dover chiudere queste brevi note con un nostro commento. Siamo di fronte ad uno spettacolo particolarissimo dove l'originalità dell'azione dei protagonisti è tale da elevare a momenti di straordinario interesse questa singolare rappresentazione; dove, in conclusione, i valori del teatro popolare e della tradizione trovano, grazie alla scarna quanto essenziale recitazione degli attori, un punto di sintesi culturale di altissimo significato.

COCCINO

Tradizione legata al Lunedì di Pasqua e ancora viva e presente sino a qualche anno fa Bambini e adulti, i primi dopo la funzione religiosa nel piazzale della Chiesa, i secondi a casa o nelle osterie, con tre o quattro uova sode si sfidavano al "coccino"; ciascuno estraeva il suo uovo, debitamente colorato, che a turno batteva su quello dell'amico, il vincitore era colui che riusciva a rompere l'uovo di turno ed il premio era rappresentato
Dall'uovo scalfito. Una variante infantile al gioco era costituita, in alcuni paesi, dal "Ruzzlìn", ove lo scontro dei gusci non avveniva tra le mani, ma alla fine di una discesa erbosa dove le uova erano lasciate appunto ruzzolare.
La gara degli adulti iniziava con una conta, per decidere chi doveva cominciare, e chi avrebbe preso il primo uovo della fila disposta per terra, gli altri partecipanti attendevano il loro turno. Le uova venivano poi consumate in compagnia tra risate, canti e bicchieri di vino.

 

4 - I percorsi della religiosità popolare

I PERCORSI DELLA RELIGIOSITÀ' POPOLARE

LE MAESTÀ'

Sugli isolati percorsi e sui passi del nostro appennino, lungo i sentieri impervi, negli spiazzi delle borgate o ai margini delle strade, dei ponti, dei campi, dei crocevia, sono ancora visibili, e oggetto di devota attenzione, quelle caratteristiche piccole costruzioni in pietra chiamate indifferentemente "tabernacoli", "edicole", "pilastrini", "maestà".
La funzione di queste piccole costruzioni si rifa alle consuetudini agricole risalenti a prima della cristianità. Costituivano oggetto di culto pagano e di rassicurazione per il viandante, ma anche un preciso punto di riferimento per individuare un luogo, un confine.
Con l'avvento del cristianesimo dalle "nicchie" delle "Maestà" emergono figure care alla nostra fede: dipinti di madonne o del Cristo crocefisso, oppure la statuetta
di un Santo (generalmente S. Antonio da Padova, prodigo di miracoli, o S. Antonio abate, protettore degli animali domestici e da lavoro).
Sono testimonianze antiche di fede popolare che il tempo non ha cancellato. La riconoscenza per una grazia ricevuta ne ha suggerito spesso la costruzione; altre volte, invece, determinanti sono stati e il senso della paura e il bisogno di protezione lungo il tragitto ritenuto gravido di insidie e di pericoli. In ogni caso, i nostri antenati, carichi di fatica e di miseria, confidavano che la sacra immagine tenesse lontano dalle loro case e dai ripidi pendii dei loro campi il fulmine e la tempesta, e propiziasse, inoltre, un discreto raccolto.
Erano, quindi, opere legate alla vita dell'uomo e ognuno di noi, tornando non molto indietro nel tempo, frugando nella memoria, ha la sua "Maestà" alla quale ha confidato un pensiero.
Oggi, però, tabernacoli ed edicole, pilastrini e maestà appaiono prevalentemente come opere d'effetto, forse per il loro posizionamento in punti panoramici o suggestivi. La stessa corsa all'opera di ripristino delle vecchie maestà scomparse o dirute ha un profondo significato di lavorio culturale, che riteniamo sì molto importante, ma che non può restituirci le antiche emozioni che il nostro animo provava alla loro vista..
Per ricuperare il significato di tali opere e il messaggio che il committente ha voluto affidare ad esse occorre riacquisire quella dimensione del cammino connessa alla stessa costruzione della maestà, segni sistemati nei percorsi (mulattiere, sentieri) per non smarrire la strada, ma, soprattutto, segno, durante un viaggio, della presenza di Dio. Allora, da una sosta silenziosa di fronte ad una maestà, forse riusciremo a percepire chiaramente il messaggio di un mondo nel quale la religione costituiva l'elemento centrale della vita.

LE RITUALITA' STAGIONALI

Le ritualità stagionali in montagna sono intimamente collegate alle "Rogazioni". Rogazioni "maggiori"., che si svolgono nel giorno di S. Marco e Rogazioni "minori" (quelle che più interessano l'Alto Appennino Reggiano) al tempo dell'Ascensione. Le Rogazioni "minori" ripetono i "Robigalia" di età romana.
Esse seguono percorsi segnati da preesistenti indicazioni sacrali e sono intese a ripetute benedizioni sulla prosperità della campagna e sui segni stessi della religiosità locale.
E' interessante sottolineare come in vaste zone del nostro appennino le Rogazioni minori, per lo più cadenti al principio di maggio, finissero per assorbire le ritualità relative al giorno di S. Croce, che cade il 3 maggio. In questo giorno si allestiscono le crocette lignee da porsi a protezione dei campi.
In alcune zone sono ancora attuali le processioni del Cristo morto, il Venerdì Santo, accompagnate da simbologie del fuoco. Mentre la processione si svolge all'aperto, le cime delle alture circostanti brillano dei roghi accesi; lo stesso percorso è illuminato da roghi posti ai margini della strada ed ai crocicchi. Addirittura in taluni paesi, al termine del rito, si da fuoco ad un grosso falò, attraverso il quale saltano i giovani: che è quanto di più arcaico si può immaginare.
La contaminazione è evidente: ma è un modo primitivo di partecipare con simbologia lustrale al rito cristiano; e, forse più che contaminazione, è puro assorbimento.
Forse che la simbologia del fuoco non è stata assorbita dalle processioni notturne, proprie di determinate celebrazioni cristiane, mediante l'accensione di candele e di torce?
Tornando alle Rogazioni "minori", rinviarne alle pagine che seguono, in un apposito capitolo della storia di Civago, la descrizione di un interessante quanto singolare cerimonia che si teneva presso tutte le borgate del paese nella settimana che precedeva la festa dell'Ascensione.

I PELLEGRINAGGI E LA STRADA

La strada ed il viaggio sono i grandi protagonisti dell'epoca medievale. Dopo l'anno mille vengono ripristinati antichi tracciati, con l'apertura di nuovi e più celeri collegamenti. Uomini e merci si muovono con intensità. La mobilità dell'uomo medievale è incessante, per niente limitata dalla scarsità dei mezzi e dall'asperità dei luoghi.
Il pellegrino è sempre in viaggio. Per lui viaggiare è più che un abito di vita; è vivere la metafora del destino dell'uomo che "cammina" verso la morte per la salvezza.
Qual'era il grado di correlazione tra le genti dei nostri paesi e le ansie di spostarsi e di peregrinare propri dell'epoca medievale?
Narrano le fonti che ancor prima dell'anno mille torme di pellegrini, provenienti dalle valli del Secchia e del Dolo, diretti al celebre Santuario di S. Pellegrino, percorrevano la Via delle Forbici, sino all'altezza dell'odierna Civago, per poi piegare verso l'Ospizio di S. Geminiano, da dove raggiungevano il Santuario, dopo aver valicato il Passo delle Radici.
Quest'itinerario non veniva seguito da coloro che dimoravano in prossimità del crinale. Le popolazioni di Ligonchio e di Piolo, ad esempio, il crinale lo percorrevano tutto con una marcia di 7 ore, toccando i passi di Pradarena, delle Forbici, e delle Radici.
Per tali spostamenti veniva privilegiato, ovviamente, il periodo estivo. La gente dell'Alta Valle del Dolo, infatti, solevano portarsi a S. Pellegrino nei mesi di luglio e di agosto. L'11 agosto, giorno in cui ricorre la festa di S. Lorenzo, gli abitanti dell'Alta Valle del Dolo (vedi anche Civago) si recavano a S. Pellegrino in forma ufficiale, con tanto di sacerdote e di appartenenti alle Confraternite.
Un altro Santuario che le popolazioni dell'Alto Appennino Reggiano solevano raggiungere in pellegrinaggio era situato a Pietravolta. Oggetto di venerazione era un quadro della Madonna cosiddetta di Pietravolta, dal nome della località dove il Santuario era ubicato. Il pellegrinaggio ufficiale a Pietravolta si svolgeva nella prima domenica di maggio.

IL TEATRO POPOLARE

LO SPETTACOLO DEL "MAGGIO" NELLA MONTAGNA REGGIANA

Tra le forme teatrali primitive, che ancora da noi hanno formato oggetto di curiosità ed attenzione da parte degli studiosi, è da annoverare, senza alcun dubbio, la celebrazione dei "Maggi". Questi spettacoli, che riconducono indietro di parecchi secoli e che ferino rivivere con l'ingenua mentalità dei celebranti l'epoca dei poemi cavallereschi, hanno indubbiamente una tradizione e ritornano di attualità specialmente in questi ultimi tempi in cui si cerca di risuscitare quelli che furono i costumi e le abitudini di un tempo. Il suo carattere primitivo è dato principalmente da un'area campestre, con l'immancabile cornice di fronzuti castagni e di pubblico vario e multiforme, partecipe e interessatissimo allo spettacolo.
La quasi totalità dei "Maggi", che vengono rappresentati nella nostra montagna e nelle vicine vallate del Modenese e della Garfagnana, traggono origine da episodi tolti dall'Orlando Innamorato, dall'Orlando Furioso, dalla Gerusalemme Liberata, dai Reali di Francia, dal Guerin Meschino e da altre composizioni del genere e vengono adattati o ridotti dai cosiddetti "Compositori del Maggio", che tante volte sono anche i "suggeritori" durante lo spettacolo.
Di questi compositori, parecchi ne annovera la montagna reggiana ed i testi vengono tramandati di padre in figlio, di generazione in generazione. Costoro, come del resto gli attori o i "maggiaioli" o, ancor meglio i "maggerini", vivono nelle regioni più alte e più impervie dell'appennino reggiano. Le strofe di queste composizioni sono di regola formate da 4 ottonati a rima baciata, ma alle volte, vengono cantate anche in ottave.
Da strofa a strofa, poi, il canto è intramezzato da una nenia monotona che un violino ed una chitarra, od un clarino intonano dal principio alla fine senza mutarla mai. Tracciata così a grandi linee quella che è la struttura di questi teatri naturali, ci apprestiamo a descrivere qualcuno di questi spettacoli, senza diffonderci a narrare la trama dei vari episodi, ma cercando di farne ben comprendere le caratteristiche e gli sviluppi.
La celebrazione, che abitualmente ha luogo in uno spiazzo più o meno ampio, a seconda della località, si effettua in un'area a forma circolare, con pochi pali infissi nel terreno e congiunti con fili che delimitano grossolanamente l'area in cui si svolge lo spettacolo.
Seduti in terra in prima fila, a diretto contatto con i celebranti, ci sono i più accesi sostenitori, costituiti da parenti, amici e compaesani: "la claque". E a ridosso, su panche e sedie, i numerosissimi spettatori. Questa moltitudine, che non perde una strofa, applaude rumorosamente, facendo scricchiolare panche e sedie, mentre dalla sommità dei castagni, dove stanno appiccicati dei veri grappoli umani, si acclama a gran voce.
L'ampio cerchio, così delineato, è diviso in due campi: quasi sempre l'uno pagano e l'altro cristiano. Ora nell'uno, ora nell'altro luogo, si portano a svolgere la loro parte eroine e guerrieri. Agli estremi dei campi due cespugli con due tende raffigurano gli accampamenti. Due drappi colorati, piantati su bastoni infissi nel suolo: le bandiere. Cartelli indicatori, vergati senza tante pretese, informano: "campo pagano" o "campo cristiano". I re, dal portamento altero, impettiti e fieri della loro dignità, vestono a colori variopinti, in prevalenza rosso e giallo, con spalline in tinta colorate, sul capo una imponente corona di cartone e al fianco uno spadone di legno dai riflessi argentei, con un'elsa da tenere con due mani.
I guerrieri dei due campi, al seguito dei rispettivi comandanti, si differenziano per i colori delle giubbe.   Verde carico le une, giallo rossastro le altre.   Il pastore, che non manca mai in questi spettacoli, siede da un lato, al limite della saldatura dei due campi, appoggiandosi al malfermo bastone per cantare alcune strofe.
Da ultimo, quasi a rompere la monotonia dello spettacolo, stanno altri due personaggi immancabili nei "maggi": il buffone nella parte cristiana, tutto truccato e tinto, che non fa che motteggiare i guerrieri mussulmani, e che esce continuamente in cretinate che fanno sbellicare dalle risa gli spettatori. Poi c'è il "Diavolo", che agisce nell'altro campo. Questi è completamente vestito di color fuoco, porta un'acconciatura di pelo con le coma ed ha il volto annerito con polvere di carbone. H suo giungere è sempre preceduto dalle urla dei bambini, che in gran numero assistono allo spettacolo.
II pubblico dovrà far finta di non vedere il regista del "maggio". Infatti, seguendo l'azione, si ha modo di vedere anche il "suggeritore" che, con il manoscritto aperto in mano, si sposta continuamente dietro ai singoli personaggi per suggerire le prime battute della strofa, o per ricordare loro la sequenza dell'azione.   Sta scritto così nella tradizione orale
Questo è, in sintesi, il Teatro naturale dove si rappresenta il "maggio", con i suoi cavalieri coronati e le sue leggendarie eroine. Aggiungeremo che le rappresentazioni, che hanno sempre avuto inizio nelle prime ore del pomeriggio, terminano quasi sempre a sera inoltrata, senza la pausa di un minuto. E' interessante notare che al principio dello spettacolo, un "maggerino", con una fascia a tracolla, canta il prologo, come alla fine da l'addio, ringraziando in rima autorità e spettatori.
Durante l'azione si può vedere qualche inserviente aggirarsi tranquillamente tra i cantori e mescere loro vino in gran quantità per ristorare quelle gole arse dallo spettacolo interminabile. Dall'altra parte i guerrieri fumano beatamente sigarette o mezzi toscani, ma li posano quando, con rinnovato ardore, con la fronte madida di sudore, si alzano per cantare la loro parte o per azzuffarsi in singoli duelli con strepito di ferri legnosi e sbatacchiar di scudi di lamiere zincate.
Questi duelli, che avvengono tra coppie di 4/5 guerrieri degli opposti campi durano alcuni minuti e finiscono, quasi sempre, con l'uccisione simbolica di alcuni di essi, che il buffone si carica sulle spalle, in una caratteristica posizione a testa in giù, per portarli fuori scena.
Gli inservienti girano negli intervalli con dei bussolotti o con vassoi per raccogliere le offerte del pubblico che non si fa pregare, ma da largamente. Qualche hurrà viene lanciato dai protagonisti all'indirizzo di chi offre un fiasco di vino. Tanta è la serietà, l'ardore, l'ansia primitiva e sincera che i protagonisti mettono per la riuscita dello spettacolo che finiscono per trasmettere la loro commozione negli spettatori.
Il 7 dicembre 1997, per la prima volta nella storia di queste rappresentazioni, una recita del "Maggio" è approdata a Milano, al Teatro dell'Arte di Viale Alemagna.
Si è trattato del "Macbeth", un "maggio" di Romolo Fioroni, cantato da "maggerini" di Costabona, liberamente tratto dall'omonima tragedia, nell'ambito della Rassegna: "Shakespeare a Milano", organizzata dall'Assessorato alla Cultura del Comune lombardo.
Come abbiamo sottolineato, "questo rito" si svolge all'aperto con le caratteristiche sopra descritte.
Nell'occasione, invece, calate in una dimensione metropolitana, l'azione scenica e la declamazione cantata in versi costringe il pubblico ad una insolita disposizione circolare sul palco ed in platea.
Per concludere, da recenti ricerche si è appreso che il "Maggio" sia stato importato dalla Toscana in Emilia da lavoratori stagionali, quali pastori e taglialegna. Già il Pascoli, in una nota di commento ai "Canti di Castelvecchio" definì quei montanari che provenivano dall'Alto Appennino Reggiano: "alti, biondi, con occhi cerulei, veri longobardi, poveri e forti, immaginosi e poetici, grandi raccontatoti di fole a veglia".
Grandi raccontatoti di fatti straordinari dovettero essere stati, senz'altro, i nostri antenati se riuscirono ad esprimere, nei loro rustici e modesti luoghi, un così ricco impianto cultural-popolare quale veniva a proporsi la recitazione dei "Maggi".
Il "Maggio" ha antichissime origini e unisce l'aspetto pagano del Teatro greco a quello sacro delle Rappresentazioni medievali. E' qualcosa di più di una rappresentazione teatrale: è, in effetti, un rito e l'aspetto essenziale di tale espressione rituale sta nella lotta tra i due elementi principali che regolano la vita dell'uomo: il bene ed il male, e si risolve sempre con la sconfitta finale del secondo.

NOTE CONCLUSIVE DELLA PRIMA PARTE

Nel concludere questa prima parte della nostra "Ricerca", dove ci siamo occupati dei vari aspetti che riguardano la natura dei tenitori dell'Alta Valle del Dolo, nonché delle abitudini, delle attività e degli interessi di quelle popolazioni, avvertiamo la necessità di completare le nostre osservazioni affrontando una tematica del tutto inedita e particolare: il fiume Dolo nel suo interessante percorso dalle sorgenti al fianco destro del fiume Po.
Il fiume Dolo - fiume e non torrente, avendo del fiume tutti i requisiti - nasce ai piedi del Monte Vecchio, in quella parte dell'Appennino Reggiano che confina con le creste appenniniche della provincia di Lucca, di Massa e di Modena.
Il percorso del nostro fiume segue in modo inequivocabile un andamento rettilineo e parallelo alla linea di confine della provincia di Modena, disegnando una profonda vallata che, senza subire deviazioni, raggiunge la piana di Cerredolo. Il Dolo prosegue, poi, il suo corso sfiorando sul lato sinistro le città di Sassuolo e di Modena, per proseguire verso il Po, appena sotto la città di Manto va.
Il Dolo accoglie due importanti corsi d'acqua lungo la sua discesa verso il Po: uno sul lato destro con il torrente Dragone, che nasce nel modenese ed entra nel nostro fiume prima di Cerredolo; l'altro sul lato sinistro con il fiume Secchia , che nasce sotto il Passo del Cerreto.
Il Secchia, dopo aver tagliato in diagonale tutto l'alto appennino reggiano, entra nel Dolo appena sotto Cerredolo. Se si tiene conto delle caratteristiche idrico-strutturali, è il Dolo il vero affluente del Po e non il Secchia.
Se per un istante immaginiamo il fiume Dolo senza l'inserimento del Secchia, possiamo tranquillamente affermare che il nostro fiume proseguirebbe il suo percorso rettilineo sino al Po, disegnando una vallata dai contorni così regolari da costituire una perfetta linea di confine tra le province di Reggio Emilia e di Modena.
Verso la fine del settecento Filippo Re, illustre studioso reggiano di Agronomia, durante una visita alle Terme di Quara, nell'attraversare il Dolo all'altezza di Castagnola, definisce questo corso d'acqua fiume e non torrente poiché conduce sempre acqua e grandi sassi (a memoria d'uomo non si ricorda che il Dolo sia mai andato in secca).
Filippo Re osserva, inoltre, che è pericoloso guadare il Dolo in quanto i suoi sassi ingannano sovente chi, inesperto, crede di poter indifferentemente posare il piede sicuro sopra taluno di essi; ed è per ciò che - secondo il nostro studioso - per queste sue caratteristiche il fiume si chiamò e si chiama tuttora "Dolo".

5 - Civago nella storia

CIVAGO - SUE ORIGINI

Civago è l'ultimo paese dell'estremo lembo appenninico nel territorio reggiano, prima di arrivare alla solitudine e al silenzio solenne del crinale dove svettano le cime del Cusna, del Prado, del Monte Vecchio, fino alla Cappellina del Passo delle Forbici. Civago ha assunto le caratteristiche di centro abitato in epoca abbastanza recente, raggiungendo il suo pieno sviluppo nei primi anni del '900. E' proprio di quegl'anni il periodo di massima espansione di questo paese che, con oltre 1000 abitanti, divenne una delle più popolose località dell'Alto Appennino Reggiano.
Civago sorse per iniziativa di alcuni pastori di Cazzano i quali, per loro comodità (vicinanza ai pascoli alpestri), scelsero di stabilirsi definitivamente nell'area attualmente occupata dal paese.
I problemi che essi dovettero risolvere furono, da un lato, il consolidamento delle fragili, primitive capanne per poter affrontare, con maggior conforto e sicurezza, i rigori delle stagioni invernali, dall'altro lato la costruzione di una Chiesa che li affrancasse dalla dipendenza della Pieve di Cazzano. Ben presto le capanne divennero delle solide case.
Per quanto, invece, concerne la Chiesa, pur essendo stata eretta con una certa celerità, furono necessari tempi molto lunghi prima che la stessa riuscisse ad ottenere la piena autonomia dalla Parrocchia di Gazzano.
La storia di un paese, quasi sempre coincide con la storia della sua Chiesa, tanto che i progressi e lo sviluppo del luogo di culto vanno di pari passo con lo sviluppo ed il progresso del paese.
In ricordo dell'Ospizio di S. Leonardo del Dolo, gli abitanti di Civago intitolarono a S. Leonardo la loro Chiesa e, quando i tempi apparvero maturi, essi rivolsero al Santo Padre una petizione per avere stabilmente un Cappellano. Il Papa Urbano VHI0 li accontentò con un "Breve" del 6 luglio 1626; a poco a poco ottennero l'esercizio delle diverse funzioni e Sacramenti: gli ultimi ad essere accordati furono il Precetto Pasquale e la celebrazione del Matrimonio. In tal modo la Chiesa di Civago da "Cappellania" passò a Parrocchia, sino a ricevere il "premio" della "Prevostura" nel 1905.
La Chiesa di Civago fu oggetto di frequenti incontri con i Vescovi della Curia Reggiana. Ciò a testimonianza dell'importanza che la Chiesa stessa aveva assunto, nonostante fosse di recente costituzione.
La prima visita la effettuò il Vescovo Coccapani nel 1626, visita che replicò nel 1636. H Vescovo raggiunse il paese a dorso di cavallo, essendo la località raggiungibile solo attraverso un'impervia, ripida e stretta mulattiera. La terza visita vide la venuta nel 1652, addirittura, del Cardinale Rinaldo D'este. Nel 1664 fu la volta di Mons. Marliani; nel 1679 giunse Mons. Bellincini, quindi Mons. Picenardi.


IPOTESI SULL'ORIGINE E SUL SIGNIFICATO DEL NOME "CIVAGO"

Sull'origine e sul significato del nome "Civago" siamo in grado di riportare, qui di seguito, i contenuti di due diverse ipotesi formulate da due studiosi del nostro Appennino: il Malagoli di Reggio Emilia ed il Gigli di Pavullo nel Frignano.

A) Ipotesi dello storico Malagoli
II Malagoli, nel suo Trattato: "Toponimi romani coloniali nel reggiano" afferma che alcuni nomi di paesi del reggiano con suffisso in "aco" o in "ago", di area celtica, vanno associati a nomi personali latini. Lo studioso cita espressamente Civago, facendolo derivare dal nome di persona latino "Caepius", come pure Cavriago dal nome "Curvelius".
Ma allora, se diamo un certo qua! fondamento a tale tesi, dobbiamo escludere che siano stati i pastori di Cazzano - fondatori del paese - a scegliere il nome "Civago". E' più verosimile supporre che il territorio su cui sorse tale località si chiamasse, già da molto prima, Civago. Caepius, con ogni probabilità, fu un legionario e poi un colono romano a cui, secondo il costume di Roma, era stato assegnato, dopo una campagna militare sostenuta e vinta con le genti del luogo, una parte cospicua dei luoghi di cui ci stiamo occupando.
Ma la storia, o il caso, o qualche altro strano evento hanno chiamato in causa "Caepius", un cittadino romano il quale, con ogni probabilità, fu il primo proprietario terriero dei nostri luoghi.

B) Ipotesi dello storico Lorenzo Gigli
Lo storico Lorenzo Gigli (nato nel Frignano nel 1685) nel suo "Vocabolario etimologico topografico e storico delle castelle, rocche, terre e ville della provincia del Frignano" afferma che, in antico, con l'accezione "Civago" non si voleva indicare un paese, bensì una larga estensione territoriale, più precisamente "un Distretto".
Riportiamo, qui di seguito, uno stralcio di quanto il Gigli sostiene in un importante capitolo della sua opera:
"Nel Distretto di Civago, territorio in cui si trovano alte montagne, vi era una grande torre erettavi da Pompeo Magno, dove il grande generale romano si era rifugiato a seguito delle sonore sconfitte inflittegli da Giulio Cesare. Dopo di lui si erano colassù ritirati Fabio Massimo e Cassie che pensarono di trovare rifugio in quei luoghi pressoché inaccessibili. Il Gigli riferisce che queste straordinarie notizie erano state riportate in due tavole di bronzo, rinvenute presso la suddetta torre e poi date in custodia alla nobile famiglia dei Principi MASSIMO di Roma.
Lo storico conclude che può ben anche credersi come assai verosimile che molti altri romani o in questa, o in varie altre occasioni, si ritirassero in quei tenitori.
Possiamo, quindi, tranquillamente concludere che la Torre dell'Amorotto, nell'epoca in cui l'Amorotto vi si era insediato, non altro era che l'ultima versione di un fortilizio che in precedenza era entrato nel più articolato complesso del Castello delle Scalelle. Andando ancor più a ritroso nel tempo, la torre - secondo le prove documentali rinvenute dal Gigli - era stata addirittura eretta e posseduta da personaggi che, con nostra grande meraviglia, rispondono ai nomi di Pompeo Magno, di Fabio Massimo e di Cassio.

ANDAMENTO DEMOGRAFICO DEL PAESE

Nell'anno 1615 fu effettuato un censimento su tutto il territorio della Podesteria di Minozzo.
Civago, già attivamente presente nella Comunità, contava allora 26 famiglie per un totale di 153 persone; forniva alla Podesteria 14 soldati e garantiva una produzione di biade da mangiare pari a 669 staie, nonché biade da semenza per 155 staie.
La peste bubbonica (di Manzoniana memoria), che colpì l'Italia settentrionale attorno alla primavera del 1631, interessò anche il territorio delle nostre montagne. Tardò a diffondersi nei paesi della Podesteria a causa del loro isolamento rispetto alle località di pianura. Tuttavia, a partire da una certa data, incominciarono a manifestarsi morti improvvise a Carù, a Cere, a Carniana, a Cervarolo e alla Govemara.
A causa di ciò fu decretata la sospensione di ogni commercio con le città ed arrivò il divieto, sia dalla parte del Duca di Modena, come dalla parte del Granduca di Toscana, di portarsi in maremma con le pecore.
Fra tutte le comunità provate dal contagio, la strage maggiore la subì il Gazzanese. Civago dovè contare ben 70 decessi, quasi la metà dell'intera popolazione. Fu una vera ecatombe. Ma con il sopraggiungere dell'autunno, quasi per incanto, la grande carneficina si arrestò.
Vigendo ancora l'impedimento della quarantena e con l'inverno oramai alle porte, i pastori si industriarono a passare l'Alpe clandestinamente.
Buona parte delle pecore della Podesteria (e quindi anche i "branchi" dei nostri antenati) ripararono in Garfagnana, e di lì nelle Maremme. Nel Minozzese il numero degli ovini ammontava a 2.450 capi.
Sebbene manchino dati per accertare la mortalità dovuta ad altre calamità, come il colera di fine 800, si può affermare senza ombra di dubbio che la peste del 1631 è stata il flagello più micidiale che, per quanto si sappia, si sia riversato sopra le nostre popolazioni.
Lasciata la peste alle spalle, l'andamento demografico tomo a segnare positivamente lo sviluppo della Comunità civaghina. Dai 153 abitanti contati nel 1615 si passò alle 324 unità registrate nel 1724; il numero degli abitanti, che nel 1829 aveva superato quota 500, raggiunse il massimo storico nei primi anni del 900 con oltre 1.000 persone.

STATO DELLE ATTIVITÀ' ECONOMICHE DEL PAESE

Agli albori dell'800, Filippo Re, agronomo di chiara fama del Ducato di Reggio Emilia, effettuò un viaggio "Teocriteo" attraverso le nostre montagne che gli permise di annotare, in una approfondita relazione, lo stato delle attività agresti praticate nell'Alta Valle del Dolo.
Interessante e curiosa l'annotazione riferita alla situazione che lo studioso ebbe modo di rilevare in quel di Civago. Egli apprende che il paese, con i suoi 418 abitanti, trae il suo maggior prodotto dalle castagne: circa 500 staie all'anno. Mediamente, ogni abitante di Civago poteva contare su circa 70 kg. di questo prezioso frutto autunnale.
L'agronomo aveva notato che i Civaghini fertilizzavano i loro campi levando le cotiche (zolle) dal terreno per ammassarle in tanti mucchi a cui veniva dato fuoco. A combustione avvenuta sotterravano con le zappe la terra bruciata. Essi ricavavano così dalle scandelle (una specie di orzo che matura in meno di 2 mesi) e segale, non seminando frumento se non marzuolo, sei chicchi per ogni seme. Una buona resa, se la si confronta al rendimento dei terreni delle comunità confinanti.
Ma la fonte di reddito più significativa, in quei tempi, era rappresentata dal!'antichissima pratica della pastorizia.
Come già affermato in altra parte del racconto, Civago fu fondata da alcuni pastori di Cazzano i quali, spinti dalla necessità, furono costretti ad andare a cercare lontano dal paese d'origine nuovi pascoli per le loro greggi. I nostri antenati (e successivamente i loro discendenti) prestavano tale loro attività per circa sette mesi all'anno nei nostri luoghi e per i restanti cinque nelle maremme o nella bassa padana.
Il luogo di svernamento più abituale era la maremma toscana. Da quando, però, per intercessione del Duca, si aprì il varco del mantovano, data la minore difficoltà che presentava il tragitto, una parte dei nostri pastori si infilò verso la pianura del Po. L'arrivo dalla maremma o dalla bassa padana, se non intervenivano ragioni speciali, era piuttosto tardivo. Infatti, le zone pascolative, non solo dovevano essere sgombre di neve, ma già sufficientemente ammantate di erbe.
Non ci doveva più essere la minaccia di nevicate da mettere il pastore nel peggior imbroglio d'avere a nutrire una belante greggia senza provviste di foraggio. Sono in molti a ricordare come le non tante rare nevicate di fine marzo mettessero in serie difficoltà le avanguardie dei nostri pastori appena rientrate dai luoghi di svernamento.
Iniziavano la stagione portando le greggi in prossimità delle prime macchie ove riappariva, coi bucaneve, l'erba nascente. Poi finalmente a maggio eccoli a dominare le altezze, a riprender possesso delle conche a due passi dalla neve che indugia oltre il solito, quando tutto sorride alla primavera incipiente ed il lenzuolo immacolato del Cusna accenna a squarciarsi qua e là.

Filippo Re conclude con queste acute osservazioni il suo viaggio agronomico nella montagna reggiana effettuato alla fine del '700.
Per quanto conceme l'attività agricola vera e propria egli rileva che la causa del tristo stato della coltivazione nei monti non è nella infeconda qualità dei terreni, e nella strane vicende dell'atmosfera ma piuttosto nella pigrizia alimentata dall'ozio, nell'eccessivo amore per le bevande alcoliche e nell'emigrazione.
Per quanto riguarda, invece, il problema dei pascoli egli sostiene che, malgrado la loro estensione in montagna, il foraggio scarseggiava. Ciò era dovuto, sempre a giudizio dell'agronomo, sia ad una insufficiente fienagione, sia all'incuria a cui i prati erano esposti.
Troppo ombreggiati, privi di argini e scoli che contenessero nella giusta misura la troppo rapida fuga dell'acqua verso il piano, non arricchiti da concimazioni adeguate.
Un'altra causa consisteva nell'uso di introdurre nei prati il bestiame troppo presto, quando l'erba era appena spuntata, con il risultato di renderli prematuramente sterili.
Con l'avvento dell'industrializzazione inizia il massiccio esodo dalle zone di montagna.
Le frazioni più piccole e lontane si spengono progressivamente. La popolazione incomincia ad accentrarsi nelle fasce territoriali economicamente più forti. Anche Civago vive questa drammatica situazione e va senz' altro annoverato, a partire dai primi del '900, tra i paesi in fase di progressivo, netto calo demografico.
Intanto vanno scomparendo nel paese, quasi del tutto, i mestieri e le attività tradizionali come i carbonai, gli scalpellini, i vetturini, i taglialegna, i pastori ecc.
A questa situazione viene ad accompagnarsi l'abbandono e la rovina di quei poveri impianti e manufatti paleoindustriali costituiti dai metati per l'essiccazione delle castagne, dai luoghi attrezzati per la produzione di calce viva e, soprattutto, dai caratteristici mulini ad acqua.
Il fenomeno è comunque di carattere generale e riguarda, come abbiamo detto, tutti i paesi di montagna.
Possiamo concludere osservando che l'emigrazione, se pure ha consentito un miglioramento delle condizioni economiche, ha tuttavia depauperato i borghi della montagna, intaccando la residua, indebolita compagine sociale; alla rapida scomparsa dei riferimenti storici della tradizione si sostituiscono, ormai, nuovi modelli di vita con, quindi, nuove prospettive per il futuro.

IL DUCA FRANCESCO V° IN CIVAGO

Pochi, anche tra gli studiosi di cose montanare, sanno che l'ultimo Duca di Modena, Francesco V°, fu una volta in Civago (ultimissima e lontanissima propaggine del suo Regno) e sul Passo delle Forbici.
La visita del Duca ebbe luogo il 27 agosto 1849 e, il Rettore della Chiesa di Civago di allora, Don Antonio Rossi, volle serbarne il ricordo nel libro principale del suo archivio.
Veramente Don Rossi non segnò la gradita e importante visita nel giorno in cui essa avvenne. Anzi, aspettò qualche anno a prendere la penna, ma quando la prese il suo animo doveva traboccare di riconoscenza per il Duca Che cosa era successo? Una cosa molto semplice. Allorché Francesco V° si trovò in Civago, alloggiato nella Canonica, alla sera dopo cena, tra un bicchiere e l'altro di aleatico, Don Rossi chiese al Duca che cedesse alla Parrocchia di Civago un appezzamento di terreno situato sulla sinistra del Dolo, in località che, ancora oggi, si chiama semplicemente "il Dolo" o "Case del Dolo". In questa località, nell'Alto Medio Evo, sorgeva, come è noto, "l'Ospizio di S. Leonardo del Dolo".
Dunque Don Rossi chiese quel fondo al Duca, il quale, trovandosi in quel momento di buon umore, glielo promise, invitando il Parroco a stendere regolare domanda all'Intendenza di Modena. E la promessa fu mantenuta tanto che, l'anno dopo, il 26 giugno 1850, Don Rossi si recò a Reggio Emilia e a Modena per assistere al Rogito che sanciva il grazioso dono fatto a "cotesta Chiesa di Civago della possessione del Dolo".
Fu dopo il ritorno da questo viaggio, che era costato a Don Rossi 30 Francesconi e 10 lire di Modena, che il buon prete prese gli appunti annotati a suo tempo e li segnò sul libro più importante e cioè sul libro dei battezzati, abbinando la notizia del lascito con quella della visita ducale.
Questa seconda parte è per noi più interessante perché contiene la descrizione del viaggio che il Duca fece, il giorno dopo il suo arrivo, sul Passo delle Forbici e sul Passo delle Radici. La nota fu scritta alla fine di giugno 1861. Segno che il Rettore aveva saltato un certo numero di pagine bianche e che poi, a poco a poco, riempì.
Riportiamo ora, con l'aggiunta di qualche chiarimento, il testo della nota che non è priva di qualche sgrammaticatura:
"il primo ricorso lo feci la sera delli 27 di agosto 1849 in occasione che Sua "Altezza Reale Francesco V° fu costì (sic!) da me a dormire con il Marchese Forni e Gere "e Pavolucci e Alcati e l'Ispettore dei boschi di Pavullo, ed altre persone. Nel giorno 28 "agosto lo accompagnai io e l'anziano Rettore di Cervarolo, Don Carlo Antonio Tellina ed "il Ricetore (sic!) di Civago, Angelo Galli, fino al suo bosco cosiddetto "Valle dei Porci" e "poi alla Lama Lite.
Angelo Galli doveva essere un Guardia boschi governativo, nativo di Cerreto, ma residente a Civago.
Il Duca, quindi, salì da Civago all'Abetina; Don Rossi non ci dice se andarono alla Segheria, ma certamente sì, giacché a quei tempi, passava da quelle parti la strada più agevole per salire alla Lama Lite.

La Lama Lite è la sella, alta 1760 metri, che congiunge la  dorsale   appenninica  propriamente  detta  alla  catena  del  Monte   Cusna.  Ed  è meritatamente  famosa per essere  stata scelta,  nell'anno  1928, a sede  del Rifugio  "Cesare Battisti",  a cui fu pronosticato, meritatamente,   un grande avvenire.
Mi preme ricordare i primi gestori del Rifugio "Cesare Battisti": essi furono due giovani coniugi di Civago, belli di aspetto e di mente, Arturo Cecchini e Lucia Fioravanti.
Tornando a Don Rossi, il testo della sua nota così prosegue:
"allora il Rettore di Cervarolo, essendo affatto stanco perché aveva percorso tutta la "strada a piedi e perché di anni 78, il Principe diede 3 svanziche ad un giovane della "Romita, cioè a Luigi del fu Celeste Romiti che lo riaccompagnasse verso casa. Ed io e il "Ricetore lo accompagnassimo (il Principe) ed andassimo a desinare alla fonte di Sasso "Fratto, ove comincia il fiume Dolo.
Giunti alla sella di Lama Lite, la compagnia si divise, n Rettore di Cervarolo, accompagnato da Luigi Romiti scese a Cervarolo, passando per Vallestrina e il Duca, con gli altri, si recò alla fonte di Sasso Fratto. Qui Don Rossi non è stato preciso. Infatti la fonte di Sasso Fratto è sopra la "Sega", alla sinistra dello sprone di Monte Vecchio. Ma l'aggiunta che il Rettore fa, "ove comincia il fiume" fa sospettare, invece, che siano andati "al fontanone" o ai "fontanacci", ossia alla sorgente del Torlo. Sorgente abbondantissima e fredda, che si vede anche dal basso per una bianca cascatella. Qui dunque fecero colazione. Ma riprendiamo con la descrizione di Don Rossi:

"Dopo si andiede alla Marinella e poscia al Col del Pennato. E con 7 cavalli sempre, "poscia, andassimo ("sic!) alle Forbici ove si fermassimo un'ora e si fece il nome del "Principe in un foggio dall'Ispettore di Pavullo e colà venne ad incontrarlo il Rettore di "Massa e di Sasso Rosso, certo Bertolani.
Dalla Fonte di Sasso Fratto il Duca salì alla Marinella. Questo nome, che in certe carte antiche è dato come "Alpe Marina" e anche "Alpe Mattina", è il crinale che dopo Monte Vecchio scende alla Forbici. E' propriamente quella parte che sovrasta il "Lago delle Ragazze", prima degli "Scaloni". Dopo questo si ha il Colle del Pennato.
Da quanto detto si desume che la comitiva salì sul crinale, lasciando sulla sinistra il Lago delle Ragazze e poi continuò per vetta, sino al Passo delle Forbici.
E' una escursione di insuperabile bellezza. Sì ha sotto gli occhi tutta la valle della Garfagnana, con sullo sfondo le guglie dentate ed accidentate delle Alpi Apuane.
Sulle Forbici venne incontro al Duca Don Vincenzo Bertolani, Parroco di Massa. La comitiva si trattenne lì un'ora, durante la quale l'ispettore dei boschi di Pavullo incise il nome del Principe sul tronco di un faggio. Ma leggiamo il testo di Don Rossi:

"Poscia si passò avanti e si andiede tutti insieme sulla cima del Monte Giovarello, "ove si fermassimo per un quarto d'ora, poscia si calò a man destra e si andiede allo "stradello, ed indi si andò verso le Radici, ove ci raggiunse Don Pellegrino Montelli di "Asta, con "Petizione al Principe".
Dalle Forbici alla vetta del Giovarello la distanza è di circa un quarto d'ora di salita, ripida assai, per cui è da credere che non tutti l'abbiano fatta, ma probabilmente qualcuno, con i cavalli, sarà andato avanti ad aspettare gli altri nello stradello. Fino a qualche decennio fa così si chiamava una via che andava ai laghi di Cella e poi entrava nella rotabile. Nel 1849 questa era appena tracciata, ma vi si passava già bene con bestie da soma. Don Rossi così prosegue:
"Poscia stradafacendo incontrassimo l'Arciprete di Cazzano, Don Saverio Rondini, "con il Rettore di Fontanaluccia, Don Giuseppe Bianchi e lo accompagnassimo sino alle "Radici, strada crociata che va a S. Pellegrino, ove da cavallo il Duca mi diede un bacio e ci "dessimo l'addio ed esso con gli altri andiede verso le fontanine e noi a Civago. Firmato: "Don Antonio Rossi lì 29 giugno 1850 in Civago.
Mentre , dunque, la comitiva andava sullo stradello verso le Radici, dopo il Parroco d'Asta arrivarono quelli di altri due paesi: Gazzano e Fontanaluccia. Si vede che la notizia della presenza del Duca si era sparsa nei villaggi dei due versanti ed i Parroci accorrevano sia per portare omaggio al loro Sovrano, sia per chiedere qualche favore. L'occasione era veramente eccezionale, tanto eccezionale che non tornò mai più. Potevano, una volta tanto, avvicinare il Duca, senza le noiose e lunghe pratiche che erano necessarie a Modena. Don Rossi non ci dice se presentarono petizioni.
La comitiva andò alle Radici, dove ancora non esisteva né albergo, né locanda, ma solo un piccolo sentiero che conduceva alla Via Vandelli, nella località dove, poi, sorse il capannone, fabbricato che serviva agli uomini che lavoravano alla strada. E' probabile che Don Rossi si sia congedato dal Duca proprio sul Passo delle Radici, dove c'è un incrocio di strade: una che scende in Civago, un'altra che va a S. Pellegrino, una terza, infine, che conduce a Piadelagotti. Si erano tenuti buona compagnia quei Signori, liberi da ogni etichetta di corte, tanto che il Duca, al momento del congedo, diede un bacio a Don Rossi, il quale se ne ricordò sinché visse.
Quando, riempite le pagine bianche che aveva saltato nel suo libro parrocchiale, Don Rossi si ritrovò la pagina scritta 11 anni prima, era l'8 giugno 1861 ed il Regno d'Italia era stato solennemente proclamato e si andava sempre più consolidando.
Che cosa avrà pensato Don Rossi, rileggendo quella pagina che gli ricordava l'episodio più bello della sua vita? Avrà egli immaginato che l'esilio del suo Duca era questa volta definitivo? Forse no. Forse morì con la segreta convinzione che quel nuovo ordine di cose non fosse stabile. Forse il lascito ottenuto su "al Dolo" e il bacio ricevuto sul Passo delle Radici continuò ad alimentare nel suo animo, insieme con la riconoscenza, anche il rimpianto per un mondo che non doveva tornare mai più.
siamo grati a Don Rossi per averci lasciato il ricordo di questo viaggio di Francesco V° in Civago e sulle Forbici, ma vorremmo sapere qualcosa di più, per esempio, su come il Duca arrivò in paese e quale fu lo scopo della sua visita.
Di questo viaggio, che pure durò 4 giorni, non fa parola lo storico del Duca Bajarok; neppure all'archivio di Modena ne esistono tracce. Il "Messaggere" di Modena ci fa sapere che il 24 agosto il Duca era in villeggiatura a Pavullo e che vi ritornò il giorno 30. E' in questo intervallo che avvenne la sua visita nella nostra montagna. Con ogni probabilità il Duca salì a Bari gazze e di lì per la Vandelli andò alla Selva di S. Maria, quindi a Piandelagotti e, infine, a Civago.
Non passò certamente da Fontanaluccia, né vi salì da Toano, perché, in tal caso, i Parroci di Gazzano e di Fontanaluccia non sarebbero corsi sull'Alpe per rendere omaggio al Principe. Ma per quale motivo egli fece questo viaggio? Si, certamente, vi sarà stato il desiderio di vedere la sua tenuta dell'Abetina e quello di fare una gita in alta montagna. Ma non è improbabile che il viaggio avesse anche un altro scopo. Non dimentichiamo che i tempi erano grossi, che le idee di libertà serpeggiavano ovunque e facevano proseliti anche in montagna tra le famiglie dei maggiori possidenti.
D'altra parte le popolazioni anelavano a maggiori comunicazioni per incrementare i rapporti commerciali. La parentesi del 1848 era chiusa, è vero, ma poteva riaprirsi da un momento all'altro. Bisognava, dunque, cercare di assicurarsi la fedeltà delle popolazioni, bisognava aiutarle nei desideri legittimi. Nel caso nostro vi era un problema veramente importante che doveva richiamare tutta l'attenzione del Duca: le comunicazioni di Modena con le terre della Garfagnana.
I lavori della strada delle Radici, cominciati nel 1839, erano stati sospesi nei primi anni da Francesco V°, ma le vicende del 1849 avevano persuaso il Duca che qualche cosa bisognava fare per conservare la fedeltà delle popolazioni. Questo lavoro era, del resto, troppo necessario e da tutti reclamato, tanto che i lavori furono ripresi con ardore nel 1859, l'anno in cui nasceva il Regno d'Italia.
Questa visita del Duca nel nostro appennino lasciò, com'è naturale, un durevole ricordo. Il Prof. Monti riuscì a cogliere qualche aneddoto al riguardo dalla viva voce dei vecchi civaghini negli anni '30, quando egli era solito frequentare Civago con una certa assiduità. 11 Monti fu incuriosito da due episodi che accaddero proprio quando Francesco V° si trovò in Civago. Un certo Paolo Gaspari, pover'uomo, ma grande fumatore, andava dicendo: "se avessi una teggia di tabacco quanto vorrei fumare!" Lo udì Don Rossi, il quale lo chiamò e gli disse: volete proprio levarvi la voglia di fumare? Certo che sì, sig. Rettore. Ebbene, trovatevi domani mattina alla Maestà delle Case di Civago e, mentre il Duca passerà, chiedetegli l'elemosina. Ma badate bene di dirgli così: Eccellenza, Dio vi dia il buon giorno e lunga vita. Fate l'elemosina a questo povero cieco. Così fece. Il Duca, udita la richiesta, si rivolse a Don Rossi, il quale confermò con il capo il bisogno di quell'uomo. E il Sovrano diede una moneta d'oro. Un altro curioso episodio avvenne quando Francesco V° si trovò alla fontana di Sasso Fratto, nei cui pressi sostava una pastorella. Questa, poi, finche visse - e morì molto vecchia - raccontò sempre che il Duca, bevuto che ebbe, esclamò"acqua sublime, acqua soave". E aveva ragione.

FERDINANDO DI LORENA IN CIVAGO

Sempre in tema di viaggi, dalle carte del Prof. Monti, abbiamo potuto apprendere che un altro Principe passò da Civago.
Anche questa notizia è fornita dal parroco di Civago Don Rossi, il quale la lasciò scritta su un foglio di guardia in fine di un altro libro dei battezzati che. però, non fu iniziato da lui, ma dal suo successore, Don Gaspare Dionigi, nel 1867.
Si tratta di una visita di passaggio di Ferdinando di Lorena. figlio del Gran Duca di Toscana: Leopoldo 111°. Ma ecco la notizia:
"Passò da Civago il Principe ereditario, figlio del Gran Duca di Toscana e venne in "Canonica, dove lo favorii con un fiasco di vino aleatico ed aveva con seco 13 persone ed "11 cavalli. Fra questi vi era un certo Ispettore Turchi di Castelnuovo Garfagnana. Giunse "costì alle 4 di dopo pranzo, venendo da Frassinoro e partì di costì dopo le 5. Passò l'Alpe "per Col lungo con 3 guardia-boschi e cioè: "Giandomenico Ferretti, Angelo Galli ed Anselmo Francesconi,
"Teste Don Antonio Rossi, Parroco".