2 - La montagna del passato
LA MONTAGNA DEL PASSATO
RISORSE E MODI DI VIVERE DELLA POPOLAZIONI
II grano e altri tipi di cereali prodotti in montagna, generalmente insufficienti per alimentare tutta la popolazione, erano consumati in loco e si doveva integrarli con acquisti e importazioni dalle colline e dalla pianura. Altro prodotto, che ha sempre risalito le valli, è stato il vino, sempre molto gradito al montanaro e la cui produzione locale era limitata a poche aree e complessivamente modesta.
E' ben noto, del resto, quale ruolo occuparono, nella monotona e povera vita paesana, l'osteria e le abbondanti e ripetute bevute con gli amici. Nella difficile soluzione dei problemi della sussistenza ocupavano, naturalmente, un posto importante, in particolare tra i pastori, i prodotti locali della pastorizia: formaggi, ricotta, latte, burro, carne di pecora.
Impossibile sapere, invece, quale ruolo avessero in concreto la caccia, soprattutto nei secoli più lontani, quando nei boschi i volatili erano più numerosi e non mancavano cinghiali e caprioli, o la pesca, i cui pur abbondano, fin dal medioevo, notizie diverse relative al possesso di reti da parte degli abitanti, alla qualità di pesce presente sulla montagna (trote in primo luogo), al suo consumo nei giorni di magro.
In quasi tutto il territorio del nostro Appennino, ad integrare le granaglie provvedevano i prodotti dei castagneti. Si calcolava che un castagno producesse in media mezzo quintale di castagne fresche, da ui sarebbe stato possibile ricavare circa 15 kg. di castagne secche. Le ruote dei mulini ad acqua completavano l'opera.
Una parte dei prodotti della nostra montagna scendeva verso le città e la pianura, non soltanto in direzione dell'Emilia, ma anche, valicando il crinale, verso la Garfagnana, Lucca e le altre città della Toscana.
Sia pure molto frammentariamente, possediamo testimonianze di questo genere un po' per tutti i secoli, fin dal medioevo. La montagna forniva formaggi e ricotta, ovini, lana, castagne, legname e carbone.
Nelle nostre montagne ci si riforniva anche di prodotti minori e di tipo molto particolare come la neve nell'estate, o di oggetti dell'artigianato locale come mestoli, manici, pale, taglieri di legno di fggio. In direzione inversa e in misura sempre più intensa, con l'andare del tempo, risalivano i prodotti delle manifatture cittadine come, ad esempio, le stoffe, per quanto a questi prodotti abbiano sempre fatto localmente concorrenza piccole manifatture locali e la produzione per il consumo diretto da parte delle famiglie (non erano rare le case in cui, a tale scopo, le donne filavano e tessevano).
Per i nostri antenati, il rimedio più diffuso e più consueto al bisogno è stato tuttavia sempre quello dell'emigrazione stagionale, temporanea o definitiva, emigrazione finalizzata alla ricerca di un lavoro nei mesi morti dell'inverno. Un fenomeno particolare è stato sempre rappresentato dalle ragazze che, numerose, andavano a fare le domestiche ( "andare a servizio" si diceva allora) presso famiglie cittadine.
E' anche certo che attraverso i secoli queste correnti di manodopera hanno subito delle variazioni che sono tuttavia difficili da valutare.
Dalla montagna reggiana, all'inizio dell'"800", emigravano, nell'autunno inoltrato, boscaioli, segantini e carbonai verso la maremma, intorno a Piombino, l'Argentario e nella pianura di Grosseto; alcuni di questi, addirittura, si dirigevano verso la Corsica.
Nell'emigrazione stagionale la durata dell'assenza dei lavoratori era determinata dal ciclo di maturazione e di raccolta delle produzioni agricole in montagna. Le partenze ed i ritorni coincidevano con il termine delle operazioni di semina dei cereali e con l'inizio della raccolta delle messi.
Le prime avvisaglie del freddo invernale aprivano perciò un lungo intervallo "morto" - cinque sei mesi - nella vita della montagna, che si svuotava contemporaneamente di pastori e di lavoratori migranti. In questo lungo periodo, per chi rimaneva a casa, i contatti e gli scambi con la pianura e con gli stessi paesi vicini si riducevano o scomparivano del tutto. La neve che ricopriva il terreno rendeva impraticabili i già difficili sentieri, mentre all'inizio della primavera i torrenti ingrossati per il disgelo sbarravano il passo al viandante. Con l'avanzare della primavera, la montagna ritornava a vivere. Pecore e pastori, tagliaboschi e carbonai ritornati dalla pianura ripopolavano le terre, i pascoli ed i paesi. In estate ogni paese celebrava la festa del Santo protettore; in estate erano generalmente concentrate le fiere; in estate il montanaro si recava a piedi in pellegrinaggio verso qualche luogo venerato; in estate infine erano concentrati i più importanti divertimenti degli abitanti.
LA TRANSUMANZA
Transumanza, dal latino "di là dalla terra", nella pastorizia è la consuetudine di trasferire le greggi in estate sui crinali e in autunno nelle pianure, verso il mare. La transumanza era praticata, fin dai tempi più antichi, da quelle popolazioni appenniniche che, essendo meno progredite delle altre, venivano spinte periodicamente a calare verso la pianura tirrenica e verso le altre regioni costiere.
I pastori del minozzese si muovevano in autunno, dalle loro sedi alpestri, per dirigersi alcuni verso la valle del Serchio in Lucchesia, altri verso la piana di Livorno, altri ancora (la maggior parte) nelle ontane maremme. Le pianure del Mantovano erano frequentate dai pastori dell'Appennino Modenese e Bolognese. La presenza dei pastori reggiani in quella zona era pressoché nulla.
I percorsi seguiti dai nostri antenati, della durata di circa 10 - 15 giorni, avvenivano lungo itinerari tradizionali detti "strade doganali" o "maremmane". Lungo i lati di queste vie correvano fasce erbose larghe 14 metri che servivano come pascolo per il bestiame viaggiante e punti di sosta per pernottare. Soprattutto nel viaggio di ritorno i pastori dovevano tosare le pecore, in prossimità dei mercati cittadini, e cercare di piazzare in vendita i prodotti caseari e le lane realizzate.
I percorsi erano obbligatoti e scelti prima della partenza, al momento di iniziare le pratiche di autorizzazione statale, visto che il bestiame doveva essere contato e ricontato presso diversi Uffici Doganali in cui si dovevano assolvere diverse gabelle.
La pastorizia ha perso oggigiorno, nell'economia dei paesi di montagna, il peso che aveva sin dal'antichità. Basti considerare che, fino a qualche decennio fa, tale attività costituiva un'importante fonte di reddito. Con cento capi un pastore del nostro Appennino riusciva a mantenere una famiglia di 4/5 persone.
MESTIERI E LAVORI TRA I MONTANARI REGGIANI
Soffermiamoci un attimo, nell'ambito di queste nostre comunità di montagna, ad individuare e poi a descrivere attraverso i ricordi e le ultime testimonianze dei più anziani, quelle che sono state le quotidiane attività di queste popolazioni. Ci riferiamo ai mestieri ed ai lavori che, sino a pochi decenni fa, hanno consentito alle nostre genti di montagna di sopravvivere, sia pure attraverso stenti e sacrifici d'ogni genere.
Se quella poca e preziosa terra da coltivare costituiva una delle "ricchezze" della montagna, l'altra - la più tradizionale - era certamente data dal bosco. Un bosco che, seguendo le diverse quote toccate dai crinali, poteva essere costituito da castagno, da cerro, da faggio e, qua e là, da isolati nuclei di abete bianco.
Attorno a quest'esteso patrimonio boschivo, si muoveva tutto un mondo interessato, in qualche misura, a trame di che vivere. Erano, primi fra tutti, i boscaioli - o taglialegna - che si occupavano della ceduazione dei boschi secondo le regole tramandate da una secolare esperienza. Erano i conduttori di muli (i leggendari "vetturini") che guidavano nei sentieri segreti del bosco lunghe file di questi pazienti e robusti quadrupedi, per recuperare il legname tagliato.
Sostiamo per un momento all'interno del bosco, ad osservare l'attività delle fumanti carbonaie. Il lavoro dei carbonai iniziava verso maggio, utilizzando legname già da tre o quattro mesi. Un lavoro difficile, quello del carbonaio, che faceva dire ai vecchi del mestiere che "a fare il carbonaio non si è mai finito di imparare". Elemento indispensabile per poter impiantare una legnaia era la disponibilità di un'area perfettamente piana: una "piazza". Mancando questo presupposto il legname si sarebbe sicuramente trasformato non già in carbone, ma in cenere. Quando questo avveniva il padrone "perdeva" la materia prima, ed il carbonaio "ci rimetteva" il proprio compenso. Alla costruzione di una carbonaia si lavorava, di regola, in due persone. S'iniziava costruendo il camino centrale - del diametro di circa 30 centimetri e necessario per l'accensione della carbonaia - e si proseguiva, quindi, ad ammassare tondelli in cerchi concentrici: i più minuti al centro e poi via via i più grossi, per
terminare all'esterno con una parete fatta di ramaglia, di frasche di ginestra e di felce misti con terra, che consentivano di "sigillare" perfettamente il cumulo della carbonaia.
L'attività delle carbonaie durava da maggio ad ottobre, e mentre una carbonaia bruciava (la si accendeva gettando nel "camino" dall'alto, alcune "frasche" incendiate) se ne costruivano altre due o tre. Se ne deduce che, per produrre carbone, una carbonaia doveva "fumare" per quattro-cinque giorni, a seconda che la legna impiegata fosse più o meno secca.
Conclusasi la lenta combustione in carenza d'ossigeno - grazie alla quale la legna si trasformava in carbone - la grande catasta della carbonaia, veniva "aperta". Il materiale fumante, sparso nel terreno circostante con l'aiuto di lunghi rastrelli, veniva spento gettandovi sopra acqua o, mancando questa, soffocato con abbondanti badilate di terra. Il carbone, una volta raffreddato (e questo richiedeva normalmente una mezza giornata), veniva imballato in robusti sacchi di juta e quindi caricato sui muli: due balle per ogni animale, ingegnosamente chiuse per mezzo di due rami attorcigliati alla "bocca" del sacco e posti in croce. Quindi veniva avviato ai luoghi di raccolta.
Qual era la resa di una carbonaia? Del 20%: da 100 quintali di legna se ne ricavavano 20 di carbone.
Il mestiere di carbonaio è oggi praticato da pochissimi uomini e le "macchie" sono vicine al paese o comunque raggiungibili in breve tempo con l'automobile. Le tecniche e gli arnesi sono sempre gli stessi, ma i disagi sono molto diminuiti: si consumano pasti normali a casa, si fa il bagno caldo ogni sera, si dorme in un vero letto.
Il carbone vegetale è stato sostituito, da tempo, dal gas liquido o dal metano. Oggi viene usato soltanto per la tempera dei metalli in qualche vecchia bottega di fabbro-maniscalco o nelle fonderie, oppure per cuocere le bistecche alla fiorentina. I vecchi carbonai sono da tempo in pensione ed i figli sistemati in città.
Il "SEGANTINO"
O meglio i segantini, perché questo lavoro richiedeva di norma l'uso di lunghe seghe a quattro braccia, venivano chiamati, quando si presentava la necessità di abbattere e ridurre in travi e tavole, esemplari arborei di grandi dimensioni. Ciò accadeva, di norma, quando si doveva costruire una nuova casa o, causa l'ampliarsi della famiglia, si rendeva necessario aggiungere una stanza al corpo del vecchio casolare. I grandi faggi ed i vetusti castagni venivano talvolta tagliati "nel piede": ovvero senza abbatterli. Una volta atterrati, infatti, per il loro stesso peso, sarebbero risultati non più gestibili. Se ne ricavavano dunque le tavole direttamente dal tronco, privato dei rami.
Era, quella del segantino, un'attività di grande dispendio d'energie. Ma questo non era certo sufficiente, occorreva che a ciò si sposasse una lunga dimestichezza e la quotidiana comunione dell'uomo con gli attrezzi del suo mestiere: sega e accetta.
Fra i lavori tipicamente legati alla nostra montagna non possiamo certamente dimenticare.
Lo "SCALPELLINO"
Questa attività, oggi in disuso (ve ne sarebbe grande richiesta per la ristrutturazione dei vecchi edifici, ma sembrano mancare le persone di adeguate capacità), era, invece, assai comune in passato. Quella dello scalpellino era un'arte di cui si avvertiva il bisogno anche nelle povere aree di montagna. Ancora oggi, in diversi paesi del nostro Appennino alcuni vecchi casolari ci rivelano la civetteria delle pietre angolari bugnate, dei profili in arenaria di finestre e porte, e, non di rado, sull'architrave dell'ingresso, un fiore od una foglia di faggio che, pur nell'apparente semplicità della stilizzazione, rivelano l'abilità della mano che li ha scolpiti.
Quali erano i lavori più frequentemente affidati alle mani dello scalpellino? I più vari: pavimentazione di strade e piazze, realizzazione di pietre bugnate per abbellire portali o per realizzare muretti stradali. E ancora: colonnine e profili per ingentilire le abitazioni, i basamenti di camini e le belle lapidi in pietra che ancora oggi è possibile osservare nei nostri vecchi cimiteri di montagna. Tutto questo veniva realizzato con un'attrezzatura incredibilmente semplice: scalpelli di vario diametro, alcune "punte", "schiantini", "mazzetta" e "mazza". Tutto qui, eppure quante meraviglie sono uscite dalle mani di questi abili artigiani!
In Toscana, come in Emilia e in altre regioni dell'Italia centrale, il termine "VETTURINO" significa quello che il vocabolario recita per il "vetturale" e cioè: "colui che guida cavalli o muli per trasportare persone o merci". Va detto, però, che il lavoro del "nostro" vetturino non si limita alla guida delle bestie, ma riguarda, come vedremo, anche il carico e lo scarico delle merci e tante altre cose. Il mestiere di vetturino risale, quasi sicuramente, ad epoche remotissime, forse a quando l'uomo riuscì ad addomesticare cavalli ed altri animali simili. Oggi questo mestiere è quasi definitivamente scomparso perché nei boschi, anche in quelli d'alta montagna, si può circolare con i trattori. Sono state costruite strade in mezzo alle foreste che, fra l'altro, hanno disturbato anche la vita animale.
I vetturini lavoravano tutti alla stessa maniera, poiché usavano, per l'appunto, le medesime tecniche. Si differenziavano, semmai, per gli orari di lavoro. Il vetturino tosco-emiliano si avviava al bosco a giorno "grande", dopo aver fatto mangiare la biada alle bestie e dopo l'abbeverata, mentre quello abruzzese o marchigiano cominciava un po' prima. L'opera del vetturino era richiesta soltanto per "smacchiare" legna, carbone o altri materiali (pali di castagno, tavoloni, ecc.) da boschi privi di strade. La giornata del vetturino non terminava dopo il rientro serale, ma si protraeva, seppure in maniera non continuativa, fino a tarda ora. La prima operazione che eseguiva era la "sbastatura": il vetturino sollevava il basto con entrambe le braccia, dopo averlo liberato dai finimenti, lo metteva in un luogo riparato. Terminata la "sbastatura" governava le bestie e poi se stesso. Dopo la cena si tratteneva a "veglia" e prima di andare a letto tornava nella stalla per abbeverare le bestie e per mettere al collo di ognuna la "musiera" (sacchetto di tela) riempita a metà di biada, in genere avena e fave. Quando le bestie avevano consumato la biada, il vetturino toglieva le "musiere" e riempiva di fieno le mangiatoie.
L'alba lo trovava già in piedi, non per iniziare il lavoro come facevano i carbonai, ma per controllare lo stato dei muli e dei cavalli e per "rigovernarli". Solo a giorno fatto metteva il basto alle bestie, le faceva bere e si avviava al bosco.
II vetturino aveva fama di "imprecatore", tanto per usare un eufemismo, di "bevitore" e di accanito giocatore di "morrà". Riguardo al primo punto, un caro amico di Civago (ex vetturino): Liano Fioravanti, mi disse un giorno che non bisognava scandalizzarsi perché chiunque imprecherebbe se dovesse lavorare con delle bestie, che, pur riconoscendo l'autorità del capo, non sempre rispettano gli ordini.
Per quanto concerne il bere, i vetturini sono esperti intenditori e "capaci" consumatori. Durante il riposo serale e in occasione di forzata interruzione del lavoro, si riuniscono per discutere, per cantare e, soprattutto, per giocare alla "morra".
Il mestiere del "TAGLIALEGNA"
ha origini antichissime ed è praticato anche oggi sulle nostre montagne da diverse persone. Va detto subito che gli arnesi sono mutati, in parte, intorno agli anni cinquanta. Prima si usavano accette, pennati, marracci, seghe azionate a mano, magli e zeppe. Ora è la motosega che la fa da padrona; questo mezzo permette quasi tutte le operazioni in tempi assai più brevi e con un minor dispendio d'energie fisiche. Si usano ancora accette e pennati, ma solo per lavori di pulitura dei pezzi di legna più piccoli.
Il lavoro del taglialegna consiste nell'abbattimento delle piante d'alto e medio fusto e nella selezione delle stesse, secondo l'uso che se ne vuoi fare.
Dalle piante, infetti, si può ricavare legna da ardere e da carbonizzare, tavoloni per la costruzione di mobili, porte, infissi, travi ecc.
Oggi il taglialegna lavora nei boschi non lontani da casa o comunque raggiungibili in breve tempo con l'auto.
Meritano, infine, un cenno, tra i lavoratori itineranti che nel passato battevano i nostri paesini di montagna, i sarti, i calzolai, i calderai, gli spazzacamini, e gli arrotini.
Va però precisato che gli ultimi due: gli spazzacamini e gli arrotini di rado si spingevano sui monti a visitare i casolari isolati. La loro attività si svolgeva, solitamente, nei paesi dove il flusso di denaro era un poco più consistente, e quindi la loro opera era più richiesta, il montanaro era ben poco propenso a spendere denaro per piccoli lavori che poteva espletare di persona. Una semplice ruota di pietra locale, mossa a mano o a pedale, era presente in ogni casa isolata. Serviva ad arrotare i coltelli di casa, le zappe, i badili e bastava alle poche pretese.
Per provvedere alla pulitura dei camini il nostro uomo si serviva, invece, di un cespuglio di ginepro, onnipresente sulla nostra montagna. Legato al mezzo di una fune, il pungente e ramoso arbusto veniva "tirato" e "mollato", alternativamente, da due "operatori" posti l'uno sul tetto della casa, l'altro al suo interno, alla base del camino stesso.
ABITUDINI ALIMENTARI
Nell'età preindustriale, al centro del sistema alimentare dei nostri compaesani, si collocava in primo piano il paiolo che bolliva lentamente, quasi di continuo, appeso alla catena del camino, alimentato da un fuoco perenne o tenuto tiepido da una brace raramente spenta o fredda, cui erano sconosciuti i mutamenti di stagione. Più sotto, sparse, si stendevano le ceneri del focolare, anch'esse utili a cuocere patate, cipolle ed altro.
Il fuoco ed il paiolo sono stati per molti secoli gli strumenti indispensabili e gli elementi chiave della cucina montanara, e l'acqua salata il semplice e magico fondo dal quale, con l'aggiunta di lardo o di strutto, si otteneva una minestra o una zuppa.
La casa contadina di montagna, più piccola e morfologicamente diversa da quella di pianura, aveva anche una camera appositamente attrezzata per l'essiccatura delle castagne, che costituivano il punto chiave dell'alimentazione montanara. Nell'Alto Appetirono Reggiano, dove l'influsso della vicina Garfagnana era fortemente sentito, i locali adibiti all'essiccatura delle castagne: i cosiddetti "METATT', erano posti lontano dalle abitazioni, in prossimità dei luoghi di raccolta.
Il vitto (notava un naturalista del settecento a proposito della Garfagnana, ma l'osservazione vale per tutte le popolazioni dell'arco appenninico, compreso naturalmente il nostro territorio) consiste quasi solamente in castagne, o fresche o arrostite o bollite, o seccate o ridotte in farina.
A tal proposito, abbiamo pensato di dedicare il prossimo capitolo a questo straordinario alimento.
Tornando alle abitudini alimentari dei nostri conterranei, si può affermare che facessero qualche uso del latte e del formaggio; ma in quanto a carne, o fresca o salata, pochissimi ne mangiavano, ed alcuni sembra che non ne abbiano mai assaggiata.
Miserabili e quasi inesistenti gli utensili da cucina: una pentola abbastanza capace e poc'altro. La famiglia montanara non conosceva bicchieri, né tazze, ma faceva uso di un gran mestolo posto in mezzo alla tavola o in un angolo della cucina, con cui bere.
Ovviamente, alla tavola dei meno poveri si poteva anche trovare la minestra e, in quella delle rare famiglie agiate, qualche pietanza di carne lessata o arrostita.
Ma la regola era l'indigenza assoluta. Polenta di farina di castagne, niente o scarsissima carne, mancanza di vino: il regime alimentare appenninico, in linea di massima uniforme in tutta la montagna emiliana, appariva pressappoco identico sia all'ignoto viaggiatore del "500" che ai relatori dell'Inchiesta Agraria presieduta da Stefano Jacini nel 1881.
Immobile era rimasto, dopo tanti anni, il regime alimentare perché immobili erano restate le tecniche agrarie, i rapporti di proprietà e gli strumenti di produzione. Prevalente era in montagna (contrariamente alla pianura) la piccola o la piccolissima proprietà che spesso si riduceva ad una fetta di castagneto o ad una porzione di pascolo. La struttura socioeconomica del mondo appenninico è contrassegnata dal generale egualitarismo montanaro, dalla presenza di un nugolo di piccoli proprietari di terra, di greggi, di armenti, che fanno singolarmente contrasto con i contadini proletari della collina e della pianura.
Ai tempi dell'Inchiesta Agraria sopraccitata (per la Val Secchia e la Val Dolo le interviste furono effettuate in quel di Villa Minozzo), la geografia alimentare della Regione veniva giustamente divisa in 4 fasce, ognuna con particolari caratteristiche.
La fascia che ci riguarda, la più miseranda, così enuncia lo stato alimentare della nostra popolazione montanara:
"al monte niente vino o pochissimo; quello che si consuma è alla bettola o all'osteria, andando nei di festivi ai centri abitati più prossimi; pane pochissimo e per lo più di mistura; qualche minestra di frumento condita al lardo; molta polenta di castagne, molto granoturco scambiato con castagne per amore più che altro di varietà. Pochissima carne ovina e più di rado porcina; poche ortaglie, uova, latte, formaggio: per quanto se ne può avere dall'orticello e dagli animali domestici che si allevano; qualche selvatico cacciato di frodo".
Dalla fine dell'ottocento ai nostri giorni la situazione alimentare nelle nostre montagne è andata via via migliorando, sia pure molto lentamente, sino a raggiungere, negli ultimi tempi, un livellamento assoluto e generalizzato.
LE CASTAGNE DEL PASSATO
Una delle prime iniziative che gli abitanti dell'Alta Val Dolo assunsero nei loro paesi fu quella di piantare, nelle immediate vicinanze delle loro abitazioni, numerose piante di castagno. Dopo qualche anno, il raccolto delle castagne venne a costituire l'alimento base di quelle popolazioni, sopravanzando largamente lo scarso consumo di farine di grano, di granoturco e segale.
Il Castagno
La pianta di castagno è un albero che vegeta in territorio di media e d'alta collina, nonché in località di montagna sino a circa 1000 metri d'altitudine. Il ciclo vegetativo parte in primavera con lo spuntare delle prime foglie e, subito dopo, con la fioritura da cui spunteranno i cardi. Proprio nei cardi le castagne prenderanno forma sino alla maturazione. Il mese in cui si fa il raccolto è quello d'ottobre, con un'eventuale piccola coda nel mese di novembre, a seconda dell'andamento climatico delle stagioni.
La raccolta delle castagne
II raccolto delle castagne veniva effettuato con l'aiuto di tutti i componenti della famiglia, fatta eccezione per le persone anziane e per i bambini più piccoli. Quasi tutte le famiglie del paese risultavano proprietarie di un castagneto, dove poter effettuare il relativo raccolto. Una disposizione della Podesteria di Minozzo stabiliva che le castagne che cadevano nelle pubbliche vie erano da considerarsi "RES NULLIUS" (principio del Diritto Romano che letteralmente significa: "cose di nessuno") e quindi nella piena disponibilità di chi le avesse raccolte. Le famiglie che non disponevano di un castagneto, pochissime per la verità, cercavano di raccogliere qualche castagna lungo queste vie pubbliche. Un'altra regola in vigore nella Podesteria stabiliva che, dopo la giornata del 2 novembre (ricorrenza dedicata ai defunti), nei castagneti poteva introdursi il bestiame, il che consentiva a tutti di poter raccogliere quelle castagne che erano sfuggite agli attenti proprietari.
Essiccazione delle castagne — II Metato
Le castagne possono essere utilizzate verdi o secche. Circa l'utilizzo delle castagne verdi diremo più avanti. H procedimento di essiccazione si svolgeva in un locale chiamato il"Metato".
Si tratta di una costruzione in sasso di non grandi dimensioni, alta circa 4 metri e coperta a "piagne". A circa 2 metri d'altezza veniva ricavato un piano ottenuto con listelli di legno di castagno, distanziati di qualche millimetro l'uno dall'altro, ma in misura tale da non far cadere le castagne. Queste venivano fatte scivolare sul ripiano attraverso un'imboccatura inclinata verso il basso. Sotto il ripiano si accendeva un fuoco con ciocchi di castagno che bruciavano lentamente e assicuravano una combustione 24 ore su 24. Questa operazione durava dai 30 ai 40 giorni. Alla fine le ceneri venivano
rimosse, i listelli del ripiano allentati, così da far cadere le castagne perfettamente essiccate. In Civago c'era un macchinario, munito di motore a scoppio, che provvedeva a liberare le castagne dalle bucce residue. Operazione che, altrove, veniva effettuata manualmente. Come già precisato, si ricorda che nell'Alto Appennino Reggiano, dove l'influenza della vicina Garfagnana era molto sentita, i locali adibiti all'essiccatura delle castagne erano ubicati lontano dalle abitazioni, in prossimità dei luoghi di raccolta.
La Castagna alimento di base
Le castagne sono state per molti secoli l'alimento base delle popolazioni appenniniche. Private della buccia e cotte nel loro brodo, leggermente salato, i cosiddetti "BORGHI", si mangiavano come minestra. Si mescolavano anche con il latte e in tanti altri modi. Ridotte in farina servivano a preparare la polenta che, semplice o condita in varie maniere - la più ambita era quella accompagnata alla carne di maiale - costituiva l'alimento base del montanaro per molti mesi dell'anno.
Assai ricca, inoltre, è la serie dei piatti preparati con la farina di castagne: ricordiamo, tra gli altri, le frittelle, il castagnaccio, i necci (una specie di piadina) da gustare con ricotta di pecora.
Nelle nostre città, in qualche angolo di piazza, vediamo ancora, nella stagione invernale, i venditori di "caldarroste", ultimi baluardi di una cultura e di una tradizione che accompagnò ed alimentò per secoli la vita del montanaro.
Il Mulino
Le castagne verdi diventano secche nei metati per trasformarsi in farina dolce grazie alle macine dei mulini ad acqua. Quasi tutti i paesi di montagna, posti nelle vicinanze di fiumi o torrenti, erano dotati di mulini ad energia idraulica.
Anche Civago ha avuto per una lunga serie d'anni il suo mulino, che ha cessato di operare una cinquantina d'anni or sono per due motivi. In primo luogo perché gli abitanti del paese avevano cessato di lavorare i terreni dove venivano coltivati orzo, segale e grano "marzuolo"ed inoltre perché avevano smesso di raccogliere e quindi di essiccare le castagne; in secondo luogo per la concorrenza dei grandi mulini, assolutamente più competitivi dei nostri manufatti ad acqua.
Recentemente una provvida iniziativa del Comune di Villa Minozzo ha fatto sì che il Mulino di Civago fosse restaurato in ogni sua parte. H piano superiore, un tempo destinato a camere da letto dei mugnai, oggi è diventato una comoda "Sala Riunioni". A piano terra fanno bella mostra di se 5 macine in pietra, quelle macine, che nel passato, ruotando sotto la spinta dell'acqua del Dolo, consentivano ai paesani di avere la farina dei propri cereali e delle proprie castagne.
Il Castagno nell 'edilizia e nell 'arredamento
Gli ingredienti fondamentali di una casa di montagna, un tempo, erano costituiti da pietra del luogo, murata con calce viva e sabbia di fiume. La copertura era in piagne. La trabeazione, i ripiani, le mensole ed i travetti di sostegno, le porte ed infine le finestre, erano tutti ricavati da travi e da tavole di legno di castagno.
L'arredamento di queste case, scarso ed essenziale, era anch'esso formato da mobili costruiti esclusivamente in legno di castagno di rozza, anche se di solida fattura, in quanto realizzati dai proprietari stessi delle case.
Le Castagne nella Civago dell '800 — dati statistici
Nei primi anni dell'800, Filippo Re, agronomo di chiara fama del Ducato di Modena e Reggio, effettuò un viaggio attraverso le montagne dell'Appennino Reggiano. Un viaggio che gli permise di annotare, in un'approfondita relazione, lo stato delle attività agresti praticate nell'Alta Val Dolo.
Interessante e curiosa l'annotazione riferita alla situazione che lo studioso ebbe modo di rilevare a Civago. Egli apprese che il paese, con i suoi 418 abitanti, traeva il suo maggior profitto dalle castagne: circa 500 staie l'anno. Mediamente ogni abitante di Civago poteva contare, annualmente, su una settantina di Kg. di questo prezioso frutto autunnale.
Considerazioni finali
Attualmente la raccolta delle castagne, specialmente nelle località dell'Alta Valle del Dolo, non si effettua più come una volta. I proprietari dei castagneti ne raccolgono uno o due cestini, obbedendo più ad un fatto abitudinario che ad una stretta necessità.
Qualche turista della domenica esce dal castagneto con la sua brava borsa (ahimè di plastica il più delle volte) piena di castagne. Ma tutto finisce qui, almeno per ciò che concerne il raccolto. Il vero problema è, purtroppo, la tenuta dei castagneti intesa sia come pulizia del sottobosco che degli stessi castagni.
Attualmente gli abitanti dei nostri paesi, diradati di numero e quasi tutti vecchi pensionati, non sono più in grado di fare la manutenzione del bosco. Quei pochi giovani che ancora risiedono in queste località, essendo in tutt'altre faccende affaccendati, non prendono più a cuore questi problemi.
La nostra unica speranza risiede, quindi, nell'auspicabile interessamento del Parco Regionale di recente costituzione. Si spera vivamente che questo Ente, nell'ambito delle proprie prerogative quali la tutela del patrimonio boschivo della regione, prenda in particolare considerazione la tutela dei numerosi castagneti del nostro Appennino.
GIOCHI PAESANI DEL MINOZZESE
Fedeli ai costumi dei loro antenati, gli abitanti di Minozzo alternavano le lunghe fatiche del campo o del bosco alle pause domenicali, trascorse parte in Chiesa, parte nell'osteria e in giochi all'aperto come quello della "Ruzzola" con i formaggi. Era questo il gioco che appassionava maggiormente la popolazione.
Si trattava di una sfida consistente nel lanciare una forma di formaggio pecorino il più lontano possibile. Per comodità poteva essere utilizzata una "ruggiola" di legno del tutto simile ad una forma di cacio. Le sfide si potevano contenere nell'ambito della Comunità, ma non di rado si organizzavano gare fra paese e paese. Generalmente accadeva così: la domenica mattina gli abitanti di Minozzo, che si recavano alla Messa Parrocchiale, scorgevano, appesa al battente fermo della porta d'entrata, una forma di cacio d'un mezzo peso. Era il segno che uno con quell'atto sfidava tutti gli altri abitanti del paese.
Non ci voleva altro per eccitare l'emulazione. Si formavano i crocchi, si stuzzicavano a vicenda, finché il più caldo, davanti agli occhi di tutti, andava a distaccare la forma: la sfida era accettata definitivamente e si sarebbe disputata davanti a tutto il paese, dopo il Vespro (ai più giovani ricordiamo che il Vespro era la funzione che un tempo si celebrava nelle Chiese la Domenica pomeriggio), nella spianata tenuta appositamente a disposizione dei giochi paesani fin dai tempi più antichi.
La Comunità di Minozzo si serviva a tale scopo di una spianata, rimasta prativa fino a prima della seconda guerra mondiale, chiamata "le piane" nella parte toccata, con la divisione bonaria legittimata solo in questi ultimi tempi, alla prebenda parrocchiale.
La sera, nelle "veglie" e nelle osterie, si discuteva dell'esito sortito nella partita e, intanto, si preparava già un nuovo confronto per la Domenica successiva.
Dapprima il prezzo della vittoria era la forma che l'eroe portava a casa come trofeo; ma con le deviazioni esagerate che avvengono in tutte le cose - è infatti la cosa più difficile serbare immutabile il senso dell'equilibrio - si arrivò a fare una posta multipla; anzi, se si usava la "ruggiola" (la forma di legno) si potevano puntare fino a 40 e a 50 ducati d'argento, sì da mettere a repentaglio la stabilità economica di una famiglia, per l'avventatezza di un giocatore.
Per il bene pubblico intervenne l'Autorità nella persona del Podestà di Minozzo, il quale fece spiccare nel 1598 una "Grida" in cui si fissava, come prima, di non poter scommettere più del valore reale della forma che si lanciava. Una decina d'anni più tardi se ne pubblicò un'altra analoga in cui (questa volta) il Duca prescriveva che alla "ruggiola" non si potevano giocare più di due scudi.
Un altro gioco consimile che si fece strada più tardi a Minozzo e nei paesi circostanti e contendeva il primato alla "forma", consisteva nel lancio della boccia di ferro, che comportava un fondo di terreno più sodo e facilmente si faceva lungo la via comunale, dove questa meglio si adattava.
Per il tiro alla boccia di ferro, i Minozzesi si servivano con più comodo del tratto di strada che conduceva dalla Rocca alla Chiesa.
Non risulta, invece, che i nostri bravi antenati fossero matti per il ballo, come in certi paesi di pianura.
Uno svago di maggior considerazione ed elevatezza morale era formato dal canto del "Maggio". A questa caratteristica forma di Teatro Popolare abbiamo dedicato un capitolo a parte.
3 - Le tradizioni popolari
LE TRADIZIONI POPOLARI
IL MATRIMONIO DI UNA VOLTA
II matrimonio è sempre stato considerato, specie per la tradizione montanara, un avvenimento di grande rilievo non solo per coloro che dovevano pronunciare il fatidico "sì", ma pure per parenti ed amici che partecipavano con estremo entusiasmo e calore a questo evento. Molto spesso il giorno delle nozze lo si passava all'interno dei confini domestici, con i parenti più prossimi e con un certo numero di usanze e rituali che, a grandi linee, sono state sempre presenti nelle varie realtà dei paesi della nostra montagna e che stanno ora diventando tradizioni sempre più sconosciute. Volgiamo ora uno sguardo al passato per vedere come si svolgeva il matrimonio a quei tempi e come le usanze erano diverse da oggi.
Innanzi tutto i promessi sposi s'incontravano solitamente la sera dopo cena davanti a casa o nelle stalle, ma comunque sempre vicino a genitori, parenti e conoscenti. Solamente la domenica ci si poteva vedere liberamente (se di libertà si può parlare) nella piazza del paese, prima o dopo la messa. Se un ragazzo ed una ragazza "si parlavano" stava significando che tra di loro vi erano serie intenzioni. Il fidanzamento, come dimostrava il famoso detto: "SEMPR MURUSA E MAI MUJERA" (sempre morosa e mai moglie), poteva superare benissimo i 10 anni.
Dote e "Flipa"
Quando si riteneva che i due fidanzati fossero preparati per intraprendere la vita matrimoniale il padre, od entrambi i genitori dello sposo, si recavano a casa della futura nuora per chiederne ufficialmente la mano.
Spesso in quell'occasione, oltre a fissare la data del matrimonio, si parlava anche dei vari compiti delle due famiglie o dei novelli sposi, come ad esempio la preparazione del corredo.
La sposa portava, infatti, solitamente in dote un misero corredo - confezionato da lei personalmente sotto le direttive della madre - che in genere comprendeva due lenzuola, due federe e qualche asciugamano.
Lo sposo invece doveva iniziare a costruire da solo, al massimo seguendo i consigli del falegname del paese, il mobilio della camera, ossia il letto e un piccolo guardaroba dove riporre il corredo nuziale.
La sposa, durante i preparativi riguardanti il giorno delle nozze, era molto spesso aiutata dai consigli della "Flipa" (Filippa - termine di solo uso dialettale), cioè da quella donna che s'impegnava ad organizzare al meglio tale giornata occupandosi di vari compiti quali l'abito, la funzione in Chiesa e, soprattutto, la "Torta".
La "Flipa" aveva, inoltre, il compito di preparare la futura sposa alla vita coniugale spiegandole pure "quei particolari" che la mamma non si era mai assunta l'incombenza di insegnarle.
La sposa vestiva solitamente con un abito molto semplice, bianco solo dopo la seconda guerra mondiale e, talvolta, poteva indossare un velo in testa; l'abito dello sposo, il più delle volte, era scuro e molto spesso, conclusa la cerimonia, rimaneva per tutta la vita, l'unico abito elegante (il leggendario abito della "festa").
La ricerca della sposa e "l'Imbuscada "
La mattina della cerimonia lo sposo andava a cercare la fidanzata a casa trovando inizialmente altre donne, che gli venivano presentate, ma che egli rifiutava elogiando la sua futura moglie che compariva dopo molto tempo; è usanza recente l'arrivo della sposa alla Chiesa accompagnata dal padre e seguita dagli invitati. Poiché il pranzo si consumava a casa della sposa, alla cerimonia molto spesso mancava la madre che si tratteneva nell'abitazione per curare i preparativi. La cerimonia era semplice:
Questo tradizionale scherzo dell'imboscata si può a volte ancora vedere nei matrimoni attuali.
Contenti, divertiti e con un po' di fame, fra gli "evviva" e gli spari di fucili da caccia, si proseguiva il tragitto verso la casa della sposa. Il pranzo, quel giorno, non era certamente "luculliano", tuttavia abbastanza ricco ed abbondante: primo, secondo, vino a volontà, e infine la torta nuziale generalmente di croccante.
Durante il pranzo, negli anni più recenti, c'era l'usanza di tagliare la cravatta allo sposo, per far sì che ogni invitato ne prendesse un pezzettino come ricordo della bella giornata trascorsa. Se tra gli invitati vi era qualcuno che in precedenza era stato sentimentalmente legato ad uno degli sposi si coglieva l'occasione per deriderlo con un altro tradizionale scherzo: l'"incalcinada".
L'"incalcinada" consisteva nel versare addosso a questa persona farina (di frumento) o cenere e, nel caso non ci si riuscisse, si mescolava la cenere (o la farina) con acqua, ottenendo così una specie di "calcina" che si tirava contro il muro dell'abitazione dell'interessato.
Dopo il pranzo vi era sempre qualche persona, tra gli invitati o al di fuori di essi, che si presentava con chitarra e violino o con la fisarmonica per rallegrare ancora di più il già esistente clima di festa suonando qualche pezzo e permettendo così a sposi ed invitati di fare qualche ballo in compagnia.
Nel tardo pomeriggio la sposa veniva accompagnata nella sua dimora coniugale (a casa dello sposo) da tutti i presenti e principalmente sostenuta da una figura, ormai scomparsa anch'essa: "E mnun" (letteralmente: "menone", ossia colui che mena, colui che conduce; nel nostro caso "e mnun" era colui che aveva il compito di portare la sposa a casa dello sposo).
Arrivati alla nuova abitazione, prima di essere ufficialmente accolta, veniva sottoposta ad un lungo, scherzoso interrogatorio, da parte della suocera, durante il quale, quest'ultima si avvaleva dell'aiuto del "Mnun".
Dopo quest'interrogatorio e dopo l'ingresso da parte della sposa nella nuova famiglia, ci si rimetteva nuovamente a tavola per la cena; dopodiché, prima di andarsene a letto, si continuava il clima di baldoria, ricominciando a ballare fino a mattina inoltrata.
La prima notte di nozze era un'altra occasione che gli amici avevano per far lavorare la fantasia e far tribolare gli sposi con altre burle che potevano andare dal sale cosparso sulle lenzuola, alla campanella attaccata alla rete del letto e, se uno degli sposi era vedovo, non poteva mancare la "chiucona" (cioccona, termine di solo uso dialettale). Questo scherzo consisteva nel raccogliersi degli amici sotto la finestra della camera da letto con strumenti improvvisati come campanacci, coperchi, scatole di latta, lamiere e bastoni per fare un "concerto", il più chiassoso possibile. Negli ultimi anni questo scherzo è stato mantenuto e generalizzato con recipienti di latta legati dietro le automobili.
Abbiamo finora parlato di come in altri tempi si svolgeva una giornata così importante come quella del matrimonio, tralasciando però due importanti argomenti: il viaggio di nozze ed il "regalo".
Come si potrà facilmente capire il viaggio di nozze a quei tempi non esisteva, si poteva al massimo considerare tale il tragitto che andava dalla casa della sposa a quella dello sposo. Per quanto, invece, riguarda il regalo, esso è un'usanza diffusasi soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Prima, se venivano fatti doni, erano solamente regali in natura utilizzati proprio il giorno delle nozze; quali: uova, dolci o torte - rigorosamente fatte in casa - o, "se andava bene", una gallina.
Il "giorno più bello della vita" - come abbiamo visto - veniva trascorso dai nostri nonni con estrema semplicità ed allegria anche se a volte si potevano avere matrimoni celebrati di nascosto, di notte, in modo da evitare problemi quali la non accettazione del futuro genero o della futura nuora da parte dei rispettivi suoceri, o quando l'uomo avesse più fidanzate contemporaneamente e semmai una di esse incinta.
Questi ultimi matrimoni si avevano in numero minore rispetto a quelli precedentemente descritti, ma non erano cosi rari come potrebbe sembrare.
(da una "Ricerca" di Alessandro Gaspari)
IL DIALETTO NELLE FILASTROCCHE DI UN TEMPO
A tutte le età e in qualsiasi momento, ogni persona molto spesso ricorreva a qualche filastrocca per colorire maggiormente i propri discorsi, già ben marcati dall'uso quotidiano del dialetto.
Il dialetto rappresenta quel patrimonio culturale che dalla montagna alla bassa, in ogni paese con le sue inflessioni e le sue varianti locali, trova difficoltà nel sopravvivere. La causa è da ricercarsi anche nell'ingresso, sempre più sfrenato, di un lessico che risente non solo della presenza di vocaboli stranieri, ma anche di un gergo specifico e tecnologico. Ci troviamo così di fronte ad un valore che purtroppo va man mano scomparendo.
Tuttavia, oggigiorno, si possono ancora avere testimonianze dirette della realtà dialettale di una volta. Infatti, è sufficiente recarsi in un qualsiasi borgo del nostro appennino e scambiare qualche parola con persone non più tanto giovani. Queste ci intratterranno sicuramente molto volentieri e saranno liete di ripercorrere con la niente altri tempi e rievocare così vecchie novelle, filastrocche, proverbi, modi di dire, ecc.
Dalla polenta al divertimento
Questi riferimenti al dialetto sono stati desunti dalle testimonianze di persone anziane, anche se in alcune pubblicazioni possiamo trovare il testo con varianti. Queste filastrocche sono, nel contempo, figlie di tutti e di nessuno, poiché chiunque poteva conoscere canzonette, nenie e detti, ma nessuno ne era in realtà l'artefice: scaturivano dalle menti di persone povere e modeste. Il più delle volte avevano come oggetto la loro vita quotidiana, il loro mondo contadino, riconducendo all'immagine della cucina o, come direbbe Giovanni Verga, del "focolare domestico". La vita di queste umili persone era, infatti, scandita da faticose ore di lavoro nei campi, nell'aia, o semplicemente in casa, accompagnate da dialoghi in vero dialetto: né dialetto italianizzato, né italiano dialettizzato, ma un linguaggio "popolare" semplice ed essenziale utilizzato quotidianamente in qualsiasi momento o circostanza. Numerose erano le occasioni dalle quali trarre spunto.
Il pranzo abituale
La pulenta ad furmentùm,
a chi vecc l'agh farà bun,
a chi giòvn ai spaventa,
basta mo cun la pulenta!
(la polenta di frumentone, ai vecchi gli farà anche bene, a quei giovani li spaventa, adesso basta con la polenta!)
La polenta, pranzo più che consueto del quale i giovani erano ormai stanchi, al contrario dei vecchi che questa miseria avevano ormai accettato.
Il taglio dei capelli ai bambini
Sùca plada fa i turtee
pr'an in dar ai so fradee;
so fradee fan la sulàda
pr'an in dar a sùca plada.
(zucca pelata fa i tortelli per non darne ai suoi fratelli; i suoi fratelli fanno la solata - specialità culinaria montanara - per non darne a zucca pelata).
Questa filastrocca nata dapprima con lo scopo di intrattenere i fanciulli durante questa brigosa operazione, è divenuta poi una "canzonetta" recitata di frequente, anche in altri momenti.
Il singhiozzo dei bimbi
Sangiòt, sangiòt
la pègra l'è in té pòz
la pègra l'è in té prà
e sangiòt l'è pasàa!
(singhiozzo, singhiozzo, la pecora è nel pozzo, la pecora è nel prato, il singhiozzo è passato!)
Semplicemente pronunciata con il tentativo di distrarre i piccini e far passare quel singhiozzo così fastidioso, che non accennava a cessare in altro modo.
Il divertimento e la spensieratezza dei più giovani
A gh'era 'na volta
un top e un ricc
chi rampavi su pr'un gradic
e gradic e de a la volta
vot che t'la cunta n'atra volta?
(c'era una volta un topo e un riccio che si arrampicavano su per un "graticcio" - il graticcio era un rustico cancelletto fatto con rametti di salice per chiudere semplici recinzioni - il graticcio si è capovolto, vuoi che te la racconti un'altra volta? )
Questa filastrocca era rivolta in particolare a quei bimbi che non si stancavano mai di farsi raccontare qualche favola dagli adulti.
Dùnca dùnca
tri cunchin i fan na cunca
tre cùnch e'l fan un cùncun
chi l'va sòta l'è 'l più bùn!
(Dunque, dunque, tre conche piccole fanno una conca, tre conche fanno una grossa conca, chi va sotto è il più buono! ).
La manina mata
la picia cul cla cata,
la cata e so padrun
pim pum un bel sciafun!
(La manina matta picchia quello che trova, trova il suo padrone, pim pum un bel schiaffone!).
Lumache e astuzia
Le filastrocche non avevano l'obiettivo di trasportare i fanciulli nel mondo delle favole, ma semplicemente quello di distrarli qualche minuto mentre genitori e nonni erano occupati nelle loro attività.
Infatti, molte cantilene avevano lo scopo di rallegrare i giovani, attirando la loro attenzione, ed è il caso degli esempi appena riportati, con semplici giochi di rima, con semplici conte, o con varie forme di movimenti e di gestualità.
L'incontro con insetti o animali
Lumàga lumaghina,
la va pian la bestiulina,
la va pian pr'ans rumpr i'oss,
la so ca lagh'Iha adoss.
La dis che a'ndar pian,
a s'va fort e a s'va luntan.
(Lumaca lumachina, va piano la bestiolina, va piano per non rompersi le ossa, la sua casa ce l'ha addosso. Dice che ad andare piano, si va forte e si va lontano).
I compagni di gioco dei bambini erano di frequente le bestiole o gli insetti e, per questo, molto spesso si inventavano filastrocche per ricordare tali animali, come l'esempio soprariportato della chiocciola.
L'astuzia tra due persone
A divid da bun fradel,
a ti la cagna e a mi e purcel,
st'a paura ca t'ingana,
a mi e purcel e a ti la cagna.
(divido da buon fratello, a te la cagna e a me il maiale, se hai paura che io ti inganni, a me il maiale e a te la cagna).
Questo è l'esempio di come i destinatati delle filastrocche non fossero unicamente i bambini, ma a volte anche gli adulti: in questo caso una scherzosa dimostrazione di furberia e di malizia.
Quanto abbiamo citato rappresenta una infinitesima parte di quanto si potrebbe sentire nella realtà dei vari paesi montani e riportarle tutte per iscritto occorrerebbe uno spazio ben più ampio. E' auspicabile, tuttavia, che questo spazio, seppur piccolo, che si riferisce a quel parlare più colorito dell'italiano, possa essere servito a persone già mature per rivivere qualche attimo dell'adolescenza; analogamente per i giovani, come incitamento a coltivare la tradizione dialettale dei nostri paesi. Sarebbe veramente bello che tutti i giovani ritagliassero un angolo del loro bagaglio culturale, da dedicare alla civiltà del dialetto, contribuendo a tutte le iniziative che lo connotano e che lo mantengono vivo nel corso del tempo.
(da una Ricerca di Alessandro Gaspari)
LA BEFANA
II rituale della notte della Befana, nei paesi dell'Alta Val Dolo, era molto suggestivo e coinvolgente. In quella magica notte, infatti, un gruppo di persone si preparava a cantare e due di loro si mascheravano da Befana e da Befanotto. Tutti insieme, accompagnati dai suonatori, si recavano verso le case del paese per cantare, presso ciascuna di esse, un canto canzonatorio che prendeva di mira il comportamento e le abitudini dei padroni di casa.
Se le prestazioni dei "canterini" riscuotevano successo, il padron di casa li faceva entrare per offrir loro cibo e bevande. Subito dopo, seguita dalla famiglia che li aveva accolti, la squadra di bontemponi continuava a visitare le altre case dell'abitato.
A notte alta, la compagnia si riuniva nell'edificio più grande del paese per l'ultimo brindisi e per scoprire le persone che si nascondevano dietro le maschere dei due protagonisti della serata.
BUONDÌ
II primo giorno dell'anno durante la mattinata i bambini si recavano nelle case per augurare il "buon anno", i padroni di casa dopo aver ascoltato in silenzio, offrivano ai piccoli castagne, frutta e biscotti e qualche rara carameIla.
"Bundì e bun ann fadm e bun dal anch pre'stann
e fadml ben ch'a turn anch' l'ann'quen"
(Buon dì e buon anno fatemi un dono anche quest'anno, e fatemelo bene perché così tornerò anche l'anno che viene)
IL CARNEVALE ( I "Mascr")
Ogni martedì grasso venivano preparate, in ciascuna abitazione, le frittelle di Carnevale allo scopo di offrirle a tutti coloro che, mascherati a dovere, si recavano presso le case ove eseguivano un ballo accompagnati dall'orchestra.
Il compito dei padroni di casa era quello di indovinare chi si nascondeva sotto le maschere senza indizio alcuno; una volta riusciti nell'intento avevano diritto a "smascherare" gli ospiti riconosciuti (in caso contrario essi uscivano dalla casa in silenzio).
IL BALLO DEI GOBBI
Da Novellano, paese della prima rappresentazione, nel 1937 il ballo dei gobbi si sposta nella stalla del prete di Cazzano e rimane tra le tradizioni di questo paese.
Nato come messinscena carnevalesca, consisteva in una danza accompagnata da una melodia tipica durante la quale quattro personaggi travestiti da vecchi, appesantiti da una vistosa gobba e muniti di bastone prendevano ad insultarsi sinché il diverbio degenerava in scontro fisico: calci nel sedere e bastonate sulla gobba di grande effetto. Momento particolare è quello in cui gli attori si scambiano il cappello:
la difficoltà, oltre a quella di mantenere il ritmo della musica, consiste nel cercare di riavere sulla testa, al termine della musica, il proprio copricapo; i "gobbi" sono assistiti in questo passaggio dal loro accompagnatore, il "MNU'N", il quale raccoglie i cappelli caduti.
Le rappresentazioni, seppur rare, rimangono costanti da allora.
A proposito del "Ballo dei gobbi", ci sentiamo di dover chiudere queste brevi note con un nostro commento. Siamo di fronte ad uno spettacolo particolarissimo dove l'originalità dell'azione dei protagonisti è tale da elevare a momenti di straordinario interesse questa singolare rappresentazione; dove, in conclusione, i valori del teatro popolare e della tradizione trovano, grazie alla scarna quanto essenziale recitazione degli attori, un punto di sintesi culturale di altissimo significato.
COCCINO
Tradizione legata al Lunedì di Pasqua e ancora viva e presente sino a qualche anno fa Bambini e adulti, i primi dopo la funzione religiosa nel piazzale della Chiesa, i secondi a casa o nelle osterie, con tre o quattro uova sode si sfidavano al "coccino"; ciascuno estraeva il suo uovo, debitamente colorato, che a turno batteva su quello dell'amico, il vincitore era colui che riusciva a rompere l'uovo di turno ed il premio era rappresentato
Dall'uovo scalfito. Una variante infantile al gioco era costituita, in alcuni paesi, dal "Ruzzlìn", ove lo scontro dei gusci non avveniva tra le mani, ma alla fine di una discesa erbosa dove le uova erano lasciate appunto ruzzolare.
La gara degli adulti iniziava con una conta, per decidere chi doveva cominciare, e chi avrebbe preso il primo uovo della fila disposta per terra, gli altri partecipanti attendevano il loro turno. Le uova venivano poi consumate in compagnia tra risate, canti e bicchieri di vino.