2 - La montagna del passato

LA MONTAGNA DEL PASSATO

RISORSE E MODI DI VIVERE DELLA POPOLAZIONI

II grano e altri tipi di cereali prodotti in montagna, generalmente insufficienti per alimentare tutta la popolazione, erano consumati in loco e si doveva integrarli con acquisti e importazioni dalle colline e dalla pianura. Altro prodotto, che ha sempre risalito le valli, è stato il vino, sempre molto gradito al montanaro e la cui produzione locale era limitata a poche aree e complessivamente modesta.
E' ben noto, del resto, quale ruolo occuparono, nella monotona e povera vita paesana, l'osteria e le abbondanti e ripetute bevute con gli amici. Nella difficile soluzione dei problemi della sussistenza ocupavano, naturalmente, un posto importante, in particolare tra i pastori, i prodotti locali della pastorizia: formaggi, ricotta, latte, burro, carne di pecora.
Impossibile sapere, invece, quale ruolo avessero in concreto la caccia, soprattutto nei secoli più lontani, quando nei boschi i volatili erano più numerosi e non mancavano cinghiali e caprioli, o la pesca,  i cui pur abbondano, fin dal medioevo, notizie diverse relative al possesso di reti da parte degli abitanti, alla qualità di pesce presente sulla montagna (trote in primo luogo), al suo consumo nei giorni di magro.
In quasi tutto il territorio del nostro Appennino, ad integrare le granaglie provvedevano i prodotti dei castagneti. Si calcolava che un castagno producesse in media mezzo quintale di castagne fresche, da ui sarebbe stato possibile ricavare circa 15 kg. di castagne secche. Le ruote dei mulini ad acqua completavano l'opera.
Una parte dei prodotti della nostra montagna scendeva verso le città e la pianura, non soltanto in direzione dell'Emilia, ma anche, valicando il crinale, verso la Garfagnana, Lucca e le altre città della Toscana.
Sia pure molto frammentariamente, possediamo testimonianze di questo genere un po' per tutti i secoli, fin dal medioevo. La montagna forniva formaggi e ricotta, ovini, lana, castagne, legname e carbone.

Nelle nostre montagne ci si riforniva anche di prodotti minori e di tipo molto particolare come la neve nell'estate, o di oggetti dell'artigianato locale come mestoli, manici, pale, taglieri di legno di fggio. In direzione inversa e in misura sempre più intensa, con l'andare del tempo, risalivano i prodotti delle manifatture cittadine come, ad esempio, le stoffe, per quanto a questi prodotti abbiano sempre fatto localmente concorrenza piccole manifatture locali e la produzione per il consumo diretto da parte delle famiglie (non erano rare le case in cui, a tale scopo, le donne filavano e tessevano).
Per i nostri antenati, il rimedio più diffuso e più consueto al bisogno è stato tuttavia sempre quello dell'emigrazione stagionale, temporanea o definitiva, emigrazione finalizzata alla ricerca di un lavoro nei mesi morti dell'inverno. Un fenomeno particolare è stato sempre rappresentato dalle ragazze che, numerose, andavano a fare le domestiche ( "andare a servizio" si diceva allora) presso famiglie cittadine.

E' anche certo che attraverso i secoli queste correnti di manodopera hanno subito delle variazioni che sono tuttavia difficili da valutare.
Dalla montagna reggiana, all'inizio dell'"800", emigravano, nell'autunno inoltrato, boscaioli, segantini e carbonai verso la maremma, intorno a Piombino, l'Argentario e nella pianura di Grosseto; alcuni di questi, addirittura, si dirigevano verso la Corsica.
Nell'emigrazione stagionale la durata dell'assenza dei lavoratori era determinata dal ciclo di maturazione e di raccolta delle produzioni agricole in montagna. Le partenze ed i ritorni coincidevano con il termine delle operazioni di semina dei cereali e con l'inizio della raccolta delle messi.
Le prime avvisaglie del freddo invernale aprivano perciò un lungo intervallo "morto" - cinque sei mesi - nella vita della montagna, che si svuotava contemporaneamente di pastori e di lavoratori migranti. In questo lungo periodo, per chi rimaneva a casa, i contatti e gli scambi con la pianura e con gli stessi paesi vicini si riducevano o scomparivano del tutto. La neve che ricopriva il terreno rendeva impraticabili i già difficili sentieri, mentre all'inizio della primavera i torrenti ingrossati per il disgelo sbarravano il passo al viandante. Con l'avanzare della primavera, la montagna ritornava a vivere. Pecore e pastori, tagliaboschi e carbonai ritornati dalla pianura ripopolavano le terre, i pascoli ed i paesi. In estate ogni paese celebrava la festa del Santo protettore; in estate erano generalmente concentrate le fiere; in estate il montanaro si recava a piedi in pellegrinaggio verso qualche luogo venerato; in estate infine erano concentrati i più importanti divertimenti degli abitanti.

LA TRANSUMANZA

Transumanza, dal latino "di là dalla terra", nella pastorizia è la consuetudine di trasferire le greggi in estate sui crinali e in autunno nelle pianure, verso il mare. La transumanza era praticata, fin dai tempi più antichi, da quelle popolazioni appenniniche che, essendo meno progredite delle altre, venivano spinte periodicamente a calare verso la pianura tirrenica e verso le altre regioni costiere.
I pastori del minozzese si muovevano in autunno, dalle loro sedi alpestri, per dirigersi alcuni verso la valle del Serchio in Lucchesia, altri verso la piana di Livorno, altri ancora (la maggior parte) nelle ontane maremme. Le pianure del Mantovano erano frequentate dai pastori dell'Appennino Modenese e Bolognese. La presenza dei pastori reggiani in quella zona era pressoché nulla.
I percorsi seguiti dai nostri antenati, della durata di circa 10 - 15 giorni, avvenivano lungo itinerari tradizionali detti "strade doganali" o "maremmane". Lungo i lati di queste vie correvano fasce erbose larghe 14 metri che servivano come pascolo per il bestiame viaggiante e punti di sosta per pernottare. Soprattutto nel viaggio di ritorno i pastori dovevano tosare le pecore, in prossimità dei mercati cittadini, e cercare di piazzare in vendita i prodotti caseari e le lane realizzate.
I percorsi erano obbligatoti e scelti prima della partenza, al momento di iniziare le pratiche di autorizzazione statale, visto che il bestiame doveva essere contato e ricontato presso diversi Uffici Doganali in cui si dovevano assolvere diverse gabelle.
La pastorizia ha perso oggigiorno, nell'economia dei paesi di montagna, il peso che aveva sin dal'antichità. Basti considerare che, fino a qualche decennio fa, tale attività costituiva un'importante fonte di reddito. Con cento capi un pastore del nostro Appennino riusciva a mantenere una famiglia di 4/5 persone.

MESTIERI E LAVORI TRA I MONTANARI REGGIANI

Soffermiamoci un attimo, nell'ambito di queste nostre comunità di montagna, ad individuare e poi a descrivere attraverso i ricordi e le ultime testimonianze dei più anziani, quelle che sono state le quotidiane attività di queste popolazioni. Ci riferiamo ai mestieri ed ai lavori che, sino a pochi decenni fa, hanno consentito alle nostre genti di montagna di sopravvivere, sia pure attraverso stenti e sacrifici d'ogni genere.
Se quella poca e preziosa terra da coltivare costituiva una delle "ricchezze" della montagna, l'altra - la più tradizionale - era certamente data dal bosco. Un bosco che, seguendo le diverse quote toccate dai crinali, poteva essere costituito da castagno, da cerro, da faggio e, qua e là, da isolati nuclei di abete bianco.
Attorno a quest'esteso patrimonio boschivo, si muoveva tutto un mondo interessato, in qualche misura, a trame di che vivere. Erano, primi fra tutti, i boscaioli - o taglialegna - che si occupavano della ceduazione dei boschi secondo le regole tramandate da una secolare esperienza. Erano i conduttori di muli (i leggendari "vetturini") che guidavano nei sentieri segreti del bosco lunghe file di questi pazienti e robusti quadrupedi, per recuperare il legname tagliato.
Sostiamo per un momento all'interno del bosco, ad osservare l'attività delle fumanti carbonaie. Il lavoro dei carbonai iniziava verso maggio, utilizzando legname già da tre o quattro mesi. Un lavoro difficile, quello del carbonaio, che faceva dire ai vecchi del mestiere che "a fare il carbonaio non si è mai finito di imparare". Elemento indispensabile per poter impiantare una legnaia era la disponibilità di un'area perfettamente piana: una "piazza". Mancando questo presupposto il legname si sarebbe sicuramente trasformato non già in carbone, ma in cenere. Quando questo avveniva il padrone "perdeva" la materia prima, ed il carbonaio "ci rimetteva" il proprio compenso. Alla costruzione di una carbonaia si lavorava, di regola, in due persone. S'iniziava costruendo il camino centrale - del diametro di circa 30 centimetri e necessario per l'accensione della carbonaia - e si proseguiva, quindi, ad ammassare tondelli in cerchi concentrici: i più minuti al centro e poi via via i più grossi, per
terminare all'esterno con una parete fatta di ramaglia, di frasche di ginestra e di felce misti con terra, che consentivano di "sigillare" perfettamente il cumulo della carbonaia.
L'attività delle carbonaie durava da maggio ad ottobre, e mentre una carbonaia bruciava (la si accendeva gettando nel "camino" dall'alto, alcune "frasche" incendiate) se ne costruivano altre due o tre. Se ne deduce che, per produrre carbone, una carbonaia doveva "fumare" per quattro-cinque giorni, a seconda che la legna impiegata fosse più o meno secca.
Conclusasi la lenta combustione in carenza d'ossigeno - grazie alla quale la legna si trasformava in carbone - la grande catasta della carbonaia, veniva "aperta". Il materiale fumante, sparso nel terreno circostante con l'aiuto di lunghi rastrelli, veniva spento gettandovi sopra acqua o, mancando questa, soffocato con abbondanti badilate di terra. Il carbone, una volta raffreddato (e questo richiedeva normalmente una mezza giornata),  veniva imballato in robusti sacchi di juta e quindi caricato sui muli: due balle per ogni animale, ingegnosamente chiuse per mezzo di due rami attorcigliati alla "bocca" del sacco e posti in croce. Quindi veniva avviato ai luoghi di raccolta.
Qual era la resa di una carbonaia? Del 20%: da 100 quintali di legna se ne ricavavano 20 di carbone.
Il mestiere di carbonaio è oggi praticato da pochissimi uomini e le "macchie" sono vicine al paese o comunque raggiungibili in breve tempo con l'automobile. Le tecniche e gli arnesi sono sempre gli stessi, ma i disagi sono molto diminuiti: si consumano pasti normali a casa, si fa il bagno caldo ogni sera, si dorme in un vero letto.
Il carbone vegetale è stato sostituito, da tempo, dal gas liquido o dal metano. Oggi viene usato soltanto per la tempera dei metalli in qualche vecchia bottega di fabbro-maniscalco o nelle fonderie, oppure per cuocere le bistecche alla fiorentina. I vecchi carbonai sono da tempo in pensione ed i figli sistemati in città.

Il "SEGANTINO"

O meglio i segantini, perché questo lavoro richiedeva di norma l'uso di lunghe seghe a quattro braccia, venivano chiamati, quando si presentava la necessità di abbattere e ridurre in travi e tavole, esemplari arborei di grandi dimensioni. Ciò accadeva, di norma, quando si doveva costruire una nuova casa o, causa l'ampliarsi della famiglia, si rendeva necessario aggiungere una stanza al corpo del vecchio casolare. I grandi faggi ed i vetusti castagni venivano talvolta tagliati "nel piede": ovvero senza abbatterli. Una volta atterrati, infatti, per il loro stesso peso, sarebbero risultati non più gestibili. Se ne ricavavano dunque le tavole direttamente dal tronco, privato dei rami.
Era, quella del segantino, un'attività di grande dispendio d'energie. Ma questo non era certo sufficiente, occorreva che a ciò si sposasse una lunga dimestichezza e la quotidiana comunione dell'uomo con gli attrezzi del suo mestiere: sega e accetta.


Fra i lavori tipicamente legati alla nostra montagna non possiamo certamente dimenticare.

Lo "SCALPELLINO"

Questa attività, oggi in disuso (ve ne sarebbe grande richiesta per la ristrutturazione dei vecchi edifici, ma sembrano mancare le persone di adeguate capacità), era, invece, assai comune in passato. Quella dello scalpellino era un'arte di cui si avvertiva il bisogno anche nelle povere aree di montagna. Ancora oggi, in diversi paesi del nostro Appennino alcuni vecchi casolari ci rivelano la civetteria delle  pietre angolari bugnate, dei profili in arenaria di finestre e porte, e, non di rado, sull'architrave dell'ingresso, un fiore od una foglia di faggio che, pur nell'apparente semplicità della stilizzazione, rivelano l'abilità della mano che li ha scolpiti.
Quali erano i lavori più frequentemente affidati alle mani dello scalpellino? I più vari: pavimentazione di strade e piazze, realizzazione di pietre bugnate per abbellire portali o per realizzare muretti stradali. E ancora: colonnine e profili per ingentilire le abitazioni, i basamenti di camini e le belle lapidi in pietra che ancora oggi è possibile osservare nei nostri vecchi cimiteri di montagna. Tutto questo veniva realizzato con un'attrezzatura incredibilmente semplice: scalpelli di vario diametro, alcune "punte", "schiantini", "mazzetta" e "mazza". Tutto qui, eppure quante meraviglie sono uscite dalle mani di questi abili artigiani!

In Toscana, come in Emilia e in altre regioni dell'Italia centrale, il termine "VETTURINO" significa quello che il vocabolario recita per il "vetturale" e cioè: "colui che guida cavalli o muli per trasportare persone o merci". Va detto, però, che il lavoro del "nostro" vetturino non si limita alla guida delle bestie, ma riguarda, come vedremo, anche il carico e lo scarico delle merci e tante altre cose. Il mestiere di vetturino risale, quasi sicuramente, ad epoche remotissime, forse a quando l'uomo riuscì ad addomesticare cavalli ed altri animali simili. Oggi questo mestiere è quasi definitivamente scomparso perché nei boschi, anche in quelli d'alta montagna, si può circolare con i trattori. Sono state costruite strade in mezzo alle foreste che, fra l'altro, hanno disturbato anche la vita animale.
I vetturini lavoravano tutti alla stessa maniera, poiché usavano, per l'appunto, le medesime tecniche. Si differenziavano, semmai, per gli orari di lavoro. Il vetturino tosco-emiliano si avviava al bosco a giorno "grande", dopo aver fatto mangiare la biada alle bestie e dopo l'abbeverata, mentre quello abruzzese o marchigiano cominciava un po' prima. L'opera del vetturino era richiesta soltanto per "smacchiare" legna, carbone o altri materiali (pali di castagno, tavoloni, ecc.) da boschi privi di strade. La giornata del vetturino non terminava dopo il rientro serale, ma si protraeva, seppure in maniera non continuativa, fino a tarda ora. La prima operazione che eseguiva era la "sbastatura": il vetturino sollevava il basto con entrambe le braccia, dopo averlo liberato dai finimenti, lo metteva in un luogo riparato. Terminata la "sbastatura" governava le bestie e poi se stesso. Dopo la cena si tratteneva a "veglia" e prima di andare a letto tornava nella stalla per abbeverare le bestie e per mettere al collo di ognuna la "musiera" (sacchetto di tela) riempita a metà di biada, in genere avena e fave. Quando le bestie avevano consumato la biada, il vetturino toglieva le "musiere" e riempiva di fieno le mangiatoie.

L'alba lo trovava già in piedi, non per iniziare il lavoro come facevano i carbonai, ma per controllare lo stato dei muli e dei cavalli e per "rigovernarli". Solo a giorno fatto metteva il basto alle bestie, le faceva bere e si avviava al bosco.
II  vetturino aveva fama di    "imprecatore", tanto per usare un eufemismo, di "bevitore" e di accanito giocatore di "morrà". Riguardo al primo punto, un caro amico di Civago   (ex  vetturino):   Liano   Fioravanti,  mi  disse  un  giorno   che   non  bisognava scandalizzarsi perché chiunque imprecherebbe se dovesse lavorare con delle bestie, che, pur riconoscendo l'autorità del capo, non sempre rispettano gli ordini.
Per quanto concerne il bere, i vetturini sono esperti intenditori e "capaci" consumatori. Durante il riposo serale e in occasione di forzata interruzione del lavoro, si riuniscono per discutere, per cantare e, soprattutto, per giocare alla "morra".

Il mestiere del "TAGLIALEGNA"
ha origini antichissime ed è praticato anche oggi sulle nostre montagne da diverse persone. Va detto subito che gli arnesi sono mutati, in parte, intorno agli anni cinquanta. Prima si usavano accette, pennati, marracci, seghe azionate a mano, magli e zeppe. Ora è la motosega che la fa da padrona; questo mezzo permette quasi tutte le operazioni in tempi assai più brevi e con un minor dispendio d'energie fisiche. Si usano ancora accette e pennati, ma solo per lavori di pulitura dei pezzi di legna più piccoli.
Il lavoro del taglialegna consiste nell'abbattimento delle piante d'alto e medio fusto e nella selezione delle stesse, secondo l'uso che se ne vuoi fare.
Dalle piante, infetti, si può ricavare legna da ardere e da carbonizzare, tavoloni per la costruzione di mobili, porte, infissi, travi ecc.
Oggi il taglialegna lavora nei boschi non lontani da casa o comunque raggiungibili in breve tempo con l'auto.
Meritano, infine, un cenno, tra i lavoratori itineranti che nel passato battevano i nostri paesini di montagna, i sarti, i calzolai, i calderai, gli spazzacamini, e gli arrotini.
Va però precisato che gli ultimi due: gli spazzacamini e gli arrotini di rado si spingevano sui monti a visitare i casolari isolati. La loro attività si svolgeva, solitamente, nei paesi dove il flusso di denaro era un poco più consistente, e quindi la loro opera era più richiesta, il montanaro era ben poco propenso a spendere denaro per piccoli lavori che poteva espletare di persona. Una semplice ruota di pietra locale, mossa a mano o a pedale, era presente in ogni casa isolata. Serviva ad arrotare i coltelli di casa, le zappe, i badili e bastava alle poche pretese.
Per provvedere alla pulitura dei camini il nostro uomo si serviva, invece, di un cespuglio di ginepro, onnipresente sulla nostra montagna. Legato al mezzo di una fune, il pungente e ramoso arbusto veniva "tirato" e "mollato", alternativamente, da due "operatori" posti l'uno sul tetto della casa, l'altro al suo interno, alla base del camino stesso.

ABITUDINI ALIMENTARI

Nell'età preindustriale, al centro del sistema alimentare dei nostri compaesani, si collocava in primo piano il paiolo che bolliva lentamente, quasi di continuo, appeso alla catena del camino, alimentato da un fuoco perenne o tenuto tiepido da una brace raramente spenta o fredda, cui erano sconosciuti i mutamenti di stagione. Più sotto, sparse, si stendevano le ceneri del focolare, anch'esse utili a cuocere patate, cipolle ed altro.
Il fuoco ed il paiolo sono stati per molti secoli gli strumenti indispensabili e gli elementi chiave della cucina montanara, e l'acqua salata il semplice e magico fondo dal quale, con l'aggiunta di lardo o di strutto, si otteneva una minestra o una zuppa.
La casa contadina di montagna, più piccola e morfologicamente diversa da quella di pianura, aveva anche una camera appositamente attrezzata per l'essiccatura delle castagne, che costituivano il punto chiave dell'alimentazione montanara. Nell'Alto Appetirono Reggiano, dove l'influsso della vicina Garfagnana era fortemente sentito, i locali adibiti all'essiccatura delle castagne: i cosiddetti "METATT', erano posti lontano dalle abitazioni, in prossimità dei luoghi di raccolta.
Il vitto (notava un naturalista del settecento a proposito della Garfagnana, ma l'osservazione vale per tutte le popolazioni dell'arco appenninico, compreso naturalmente il nostro territorio) consiste quasi solamente in castagne, o fresche o arrostite o bollite, o seccate o ridotte in farina.
A tal proposito, abbiamo pensato di dedicare il prossimo capitolo a questo straordinario alimento.
Tornando alle abitudini alimentari dei nostri conterranei, si può affermare che facessero qualche uso del latte e del formaggio; ma in quanto a carne, o fresca o salata, pochissimi ne mangiavano, ed alcuni sembra che non ne abbiano mai assaggiata.
Miserabili e quasi inesistenti gli utensili da cucina: una pentola abbastanza capace e poc'altro. La famiglia montanara non conosceva bicchieri, né tazze, ma faceva uso di un gran mestolo posto in mezzo alla tavola o in un angolo della cucina, con cui bere.
Ovviamente, alla tavola dei meno poveri si poteva anche trovare la minestra e, in quella delle rare famiglie agiate, qualche pietanza di carne lessata o arrostita.
Ma la regola era l'indigenza assoluta. Polenta di farina di castagne, niente o scarsissima carne, mancanza di vino: il regime alimentare appenninico, in linea di massima uniforme in tutta la montagna emiliana, appariva pressappoco identico sia all'ignoto viaggiatore del "500" che ai relatori dell'Inchiesta Agraria presieduta da Stefano Jacini nel 1881.
Immobile era rimasto, dopo tanti anni, il regime alimentare perché immobili erano restate le tecniche agrarie, i rapporti di proprietà e gli strumenti di produzione. Prevalente era in montagna (contrariamente alla pianura) la piccola o la piccolissima proprietà che spesso si riduceva ad una fetta di castagneto o ad una porzione di pascolo. La struttura socioeconomica del mondo appenninico è contrassegnata dal generale egualitarismo montanaro, dalla presenza di un nugolo di piccoli proprietari di terra, di greggi, di armenti, che fanno singolarmente contrasto con i contadini proletari della collina e della pianura.
Ai tempi dell'Inchiesta Agraria sopraccitata (per la Val Secchia e la Val Dolo le interviste furono effettuate in quel di Villa Minozzo), la geografia alimentare della Regione veniva giustamente divisa in 4 fasce, ognuna con particolari caratteristiche.
La fascia che ci riguarda, la più miseranda, così enuncia lo stato alimentare della nostra popolazione montanara:
"al monte niente vino o pochissimo; quello che si consuma è alla bettola o all'osteria, andando nei di festivi ai centri abitati più prossimi; pane pochissimo e per lo più di mistura; qualche minestra di frumento condita al lardo; molta polenta di castagne, molto granoturco scambiato con castagne per amore più che altro di varietà. Pochissima carne ovina e più di rado porcina; poche ortaglie, uova, latte, formaggio: per quanto se ne può avere dall'orticello e dagli animali domestici che si allevano; qualche selvatico cacciato di frodo".
Dalla fine dell'ottocento ai nostri giorni la situazione alimentare nelle nostre montagne è andata via via migliorando, sia pure molto lentamente, sino a raggiungere, negli ultimi tempi, un livellamento assoluto e generalizzato.

LE CASTAGNE DEL PASSATO

Una delle prime iniziative che gli abitanti dell'Alta Val Dolo assunsero nei loro paesi fu quella di piantare, nelle immediate vicinanze delle loro abitazioni, numerose piante di castagno. Dopo qualche anno, il raccolto delle castagne venne a costituire l'alimento base di quelle popolazioni, sopravanzando largamente lo scarso consumo di farine di grano, di granoturco e segale.

Il Castagno

La pianta di castagno è un albero che vegeta in territorio di media e d'alta collina, nonché in località di montagna sino a circa 1000 metri d'altitudine. Il ciclo vegetativo parte in primavera con lo spuntare delle prime foglie e, subito dopo, con la fioritura da cui spunteranno i cardi. Proprio nei cardi le castagne prenderanno forma sino alla maturazione. Il mese in cui si fa il raccolto è quello d'ottobre, con un'eventuale piccola coda nel mese di novembre, a seconda dell'andamento climatico delle stagioni.

La raccolta delle castagne

II raccolto delle castagne veniva effettuato con l'aiuto di tutti i componenti della famiglia, fatta eccezione per le persone anziane e per i bambini più piccoli. Quasi tutte le famiglie del paese risultavano proprietarie di un castagneto, dove poter effettuare il relativo raccolto. Una disposizione della Podesteria di Minozzo stabiliva che le castagne che cadevano nelle pubbliche vie erano da considerarsi "RES NULLIUS" (principio del Diritto Romano che letteralmente significa: "cose di nessuno") e quindi nella piena disponibilità di chi le avesse raccolte. Le famiglie che non disponevano di un castagneto, pochissime per la verità, cercavano di raccogliere qualche castagna lungo queste vie pubbliche. Un'altra regola in vigore nella Podesteria stabiliva che, dopo la giornata del 2 novembre (ricorrenza dedicata ai defunti), nei castagneti poteva introdursi il bestiame, il che consentiva a tutti di poter raccogliere quelle castagne che erano sfuggite agli attenti proprietari.

Essiccazione delle castagne — II Metato

Le castagne possono essere utilizzate verdi o secche. Circa l'utilizzo delle castagne verdi diremo più avanti. H procedimento di essiccazione si svolgeva in un locale chiamato il"Metato".
Si tratta di una costruzione in sasso di non grandi dimensioni, alta circa 4 metri e coperta a "piagne". A circa 2 metri d'altezza veniva ricavato un piano ottenuto con listelli di legno di castagno, distanziati di qualche millimetro l'uno dall'altro, ma in misura tale da non far cadere le castagne. Queste venivano fatte scivolare sul ripiano attraverso un'imboccatura inclinata verso il basso. Sotto il ripiano si accendeva un fuoco con ciocchi di castagno che bruciavano lentamente e assicuravano una combustione 24 ore su 24. Questa operazione durava dai 30 ai 40 giorni. Alla fine le ceneri venivano

rimosse, i listelli del ripiano allentati, così da far cadere le castagne perfettamente essiccate. In Civago c'era un macchinario, munito di motore a scoppio, che provvedeva a liberare le castagne dalle bucce residue. Operazione che, altrove, veniva effettuata manualmente. Come già precisato, si ricorda che nell'Alto Appennino Reggiano, dove l'influenza della vicina Garfagnana era molto sentita, i locali adibiti all'essiccatura delle castagne erano ubicati lontano dalle abitazioni, in prossimità dei luoghi di raccolta.

La Castagna alimento di base

Le castagne sono state per molti secoli l'alimento base delle popolazioni appenniniche. Private della buccia e cotte nel loro brodo, leggermente salato, i cosiddetti "BORGHI", si mangiavano come minestra. Si mescolavano anche con il latte e in tanti altri modi. Ridotte in farina servivano a preparare la polenta che, semplice o condita in varie maniere - la più ambita era quella accompagnata alla carne di maiale - costituiva l'alimento base del montanaro per molti mesi dell'anno.
Assai ricca, inoltre, è la serie dei piatti preparati con la farina di castagne: ricordiamo, tra gli altri, le frittelle, il castagnaccio, i necci (una specie di piadina) da gustare con ricotta di pecora.
Nelle nostre città, in qualche angolo di piazza, vediamo ancora, nella stagione invernale, i venditori di "caldarroste", ultimi baluardi di una cultura e di una tradizione che accompagnò ed alimentò per secoli la vita del montanaro.

Il Mulino

Le castagne verdi diventano secche nei metati per trasformarsi in farina dolce grazie alle macine dei mulini ad acqua. Quasi tutti i paesi di montagna, posti nelle vicinanze di fiumi o torrenti, erano dotati di mulini ad energia idraulica.
Anche Civago ha avuto per una lunga serie d'anni il suo mulino, che ha cessato di operare una cinquantina d'anni or sono per due motivi. In primo luogo perché gli abitanti del paese avevano cessato di lavorare i terreni dove venivano coltivati orzo, segale e grano "marzuolo"ed inoltre perché avevano smesso di raccogliere e quindi di essiccare le castagne; in secondo luogo per la concorrenza dei grandi mulini, assolutamente più competitivi dei nostri manufatti ad acqua.
Recentemente una provvida iniziativa del Comune di Villa Minozzo ha fatto sì che il Mulino di Civago fosse restaurato in ogni sua parte. H piano superiore, un tempo destinato a camere da letto dei mugnai, oggi è diventato una comoda "Sala Riunioni". A piano terra fanno bella mostra di se 5 macine in pietra, quelle macine, che nel passato, ruotando sotto la spinta dell'acqua del Dolo, consentivano ai paesani di avere la farina dei propri cereali e delle proprie castagne.

Il Castagno nell 'edilizia e nell 'arredamento

Gli ingredienti fondamentali di una casa di montagna, un tempo, erano costituiti da pietra del luogo, murata con calce viva e sabbia di fiume. La copertura era in piagne. La trabeazione, i ripiani, le mensole ed i travetti di sostegno, le porte ed infine le finestre, erano tutti ricavati da travi e da tavole di legno di castagno.
L'arredamento di queste case, scarso ed essenziale, era anch'esso formato da mobili costruiti esclusivamente in legno di castagno di rozza, anche se di solida fattura, in quanto realizzati dai proprietari stessi delle case.

Le Castagne nella Civago dell '800 — dati statistici

Nei primi anni dell'800, Filippo Re, agronomo di chiara fama del Ducato di Modena e Reggio, effettuò un viaggio attraverso le montagne dell'Appennino Reggiano. Un viaggio che gli permise di annotare, in un'approfondita relazione, lo stato delle attività agresti praticate nell'Alta Val Dolo.
Interessante e curiosa l'annotazione riferita alla situazione che lo studioso ebbe modo di rilevare a Civago. Egli apprese che il paese, con i suoi 418 abitanti, traeva il suo maggior profitto dalle castagne: circa 500 staie l'anno. Mediamente ogni abitante di Civago poteva contare, annualmente, su una settantina di Kg. di questo prezioso frutto autunnale.

Considerazioni finali

Attualmente la raccolta delle castagne, specialmente nelle località dell'Alta Valle del Dolo, non si effettua più come una volta. I proprietari dei castagneti ne raccolgono uno o due cestini, obbedendo più ad un fatto abitudinario che ad una stretta necessità.
Qualche turista della domenica esce dal castagneto con la sua brava borsa (ahimè di plastica il più delle volte) piena di castagne. Ma tutto finisce qui, almeno per ciò che concerne il raccolto. Il vero problema è, purtroppo, la tenuta dei castagneti intesa sia come pulizia del sottobosco che degli stessi castagni.
Attualmente gli abitanti dei nostri paesi, diradati di numero e quasi tutti vecchi pensionati, non sono più in grado di fare la manutenzione del bosco. Quei pochi giovani che ancora risiedono in queste località, essendo in tutt'altre faccende affaccendati, non prendono più a cuore questi problemi.
La nostra unica speranza risiede, quindi, nell'auspicabile interessamento del Parco Regionale di recente costituzione. Si spera vivamente che questo Ente, nell'ambito delle proprie prerogative quali la tutela del patrimonio boschivo della regione, prenda in particolare considerazione la tutela dei numerosi castagneti del nostro Appennino.

GIOCHI PAESANI DEL MINOZZESE

Fedeli ai costumi dei loro antenati, gli abitanti di Minozzo alternavano le lunghe fatiche del campo o del bosco alle pause domenicali, trascorse parte in Chiesa, parte nell'osteria e in giochi all'aperto come quello della "Ruzzola" con i formaggi. Era questo il gioco che appassionava maggiormente la popolazione.
Si trattava di una sfida consistente nel lanciare una forma di formaggio pecorino il più lontano possibile. Per comodità poteva essere utilizzata una "ruggiola" di legno del tutto simile ad una forma di cacio. Le sfide si potevano contenere nell'ambito della Comunità, ma non di rado si organizzavano gare fra paese e paese. Generalmente accadeva così: la domenica mattina gli abitanti di Minozzo, che si recavano alla Messa Parrocchiale, scorgevano, appesa al battente fermo della porta d'entrata, una forma di cacio d'un mezzo peso. Era il segno che uno con quell'atto sfidava tutti gli altri abitanti del paese.
Non ci voleva altro per eccitare l'emulazione. Si formavano i crocchi, si stuzzicavano a vicenda, finché il più caldo, davanti agli occhi di tutti, andava a distaccare la forma: la sfida era accettata definitivamente e si sarebbe disputata davanti a tutto il paese, dopo il Vespro (ai più giovani ricordiamo che il Vespro era la funzione che un tempo si celebrava nelle Chiese la Domenica pomeriggio), nella spianata tenuta appositamente a disposizione dei giochi paesani fin dai tempi più antichi.
La Comunità di Minozzo si serviva a tale scopo di una spianata, rimasta prativa fino a prima della seconda guerra mondiale, chiamata "le piane" nella parte toccata, con la divisione bonaria legittimata solo in questi ultimi tempi, alla prebenda parrocchiale.
La sera, nelle "veglie" e nelle osterie, si discuteva dell'esito sortito nella partita e, intanto, si preparava già un nuovo confronto per la Domenica successiva.
Dapprima il prezzo della vittoria era la forma che l'eroe portava a casa come trofeo; ma con le deviazioni esagerate che avvengono in tutte le cose - è infatti la cosa più difficile serbare immutabile il senso dell'equilibrio - si arrivò a fare una posta multipla; anzi, se si usava la "ruggiola" (la forma di legno) si potevano puntare fino a 40 e a 50 ducati d'argento, sì da mettere a repentaglio la stabilità economica di una famiglia, per l'avventatezza di un giocatore.
Per il bene pubblico intervenne l'Autorità nella persona del Podestà di Minozzo, il quale fece spiccare nel 1598 una "Grida" in cui si fissava, come prima, di non poter scommettere più del valore reale della forma che si lanciava. Una decina d'anni più tardi se ne pubblicò un'altra analoga in cui (questa volta) il Duca prescriveva che alla "ruggiola" non si potevano giocare più di due scudi.
Un altro gioco consimile che si fece strada più tardi a Minozzo e nei paesi circostanti e contendeva il primato alla "forma", consisteva nel lancio della boccia di ferro, che comportava un fondo di terreno più sodo e facilmente si faceva lungo la via  comunale, dove questa meglio si adattava.
Per il tiro alla boccia di ferro, i Minozzesi si servivano con più comodo del tratto di strada che conduceva dalla Rocca alla Chiesa.
Non risulta, invece, che i nostri bravi antenati fossero matti per il ballo, come in certi paesi di pianura.
Uno svago di maggior considerazione ed elevatezza morale era formato dal canto del "Maggio". A questa caratteristica forma di Teatro Popolare abbiamo dedicato un capitolo a parte.