Triste ritorno

Correvo ansando, ansante giunsi al Passo
gettai lo sguardo tremulo d'abbasso.
Scorsi vaga la valle. Ombre, ombre cupe
prima di me eran scese dalla rupe
del Penna e mi togliean l'amato svago
di contemplare i tetti di Civago.

        Voleo sedermi, riposarmi e invece
        risordo bene che ben altro feci.
        Scesi, corsi, volai siepi e torrenti,
        giunsi a Cà di Civago. Eran le venti.
        Tanto silenzio perchè mai, se ancora
        c'è un po' di luce e non è tarda l'ora?

Un giovinetto, finalmente! "Senti,
che n'è dei miei?" Gli occhi negli occhi intenti
cercano l'ombra che si spera manchi,
i suoi son ben fermi pur se stanchi.
"Tutto bene" mi dice, "credi è vero!"
"Mio padre invece..." Accenna al cimitero.

        Ed abbassando i grandi occhioni scuri:
        " Di casa tua sono rimasti i muri"
        "E i tuoi " continua "sono ad abitare
        da Amedeo, nella casa popolare."

Più non domando, l'altro tace. Solo
stridono le cicale d'oltre Dolo.
E il sangue, ora bollente, mi riempie
di un cupo martellare ambo le tempie.

        Corro. Perchè? Tant'ansia di mirare
        la cenere del caro focolare?
        Cenere infatti solamente resta
        di ciò che un tempo mi faceva festa
        quando, come oggi, ritornavo. Ed ora
        come mi accoglierà l'altra dimora?


Certo non mi offrirà tanti ricordi...
Mobili vecchi e per me nuovi, sordi
ai miei richiami, forse guarderanno
chi non hanno mai visto e che diranno?
Certo non quel che avrebber detto gai
gli altri che non mi avean scordato mai.

        Loro mi avrebber schiuso ampi cassetti
        e premurosi:"Ralfo che ti metti?"
        "Qui c'è il vestito nuovo già stirato
        e qui le scarpe". E mi sarei cambiato.
        Oggi, purtroppo, no. Cambiato è invece
        tutta Civago, ma la Costa in specie.

Nel mio caro giardino amato tanto
devo sforzarmi per frenare il pianto,
anche le dalie le mie care amiche
piangono, si son punte con l'ortiche.
Presso la porta spunta un giglio bianco
uno dei tanti, e trema. E' solo, è stanco.

        Sul muro che pareva un dì una serra
        son poche rose chine verso terra
        "Su, coraggio, che fate? Dite, dite,
        siete nate stamani e già morite?"
        E le rose mi guardano un momento,
        si accasciano ed emettono un lamento.

" Siamo solette qui, su questo muro
nero, scrostato, forse malsicuro,
ci avviticchiamo ad ogni sasso e invano
si aspetta che ritorni quella mano
che soleva dividerci, legarci
ond'era vano il vento ad atterrarci.
Ma da quando passò quell'altra mano
l'abbiamo attesa, sempre attesa, invano."

        " Passò il vecchietto ancora. Ci ha guardato
        e a capo chino in fretta se n'è andato.
        Perchè?..." Lo so perchè, perchè le rose
        sono lo specchio di quell'altre cose
        che a quel roseto stavano d'attorno.
        Sparvero anch'esse, infatti, in un sol giorno.


Tutto dissolve, tutto muore, tutto.
Nessuno metterà segno di lutto.
Nessuno? Proprio nulla? E l'incipiente
candore di mio padre è proprio niente?
Niente? Davvero? E l'ansimar forzato
di mamma pur dormente è sempre usato?

            Ora spunta la luna. Spunta e sosta
            a rimirar la desolata Costa
            dove l'ombra è più fitta dove incombe
            il gelido mutismo delle tombe,
            dove non si fan più,vero Pasquino?
            le solite baldorie all'Appennino,
            e dove alfine, più le mie sorelle
            non cantano alla luna ed alle stelle.

Benedetto Valdesalici ha registrato questa poesia. Scaricala e ascoltala: lo merita.

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